Torino, gli operai soli, feriti a morte – intervista a Marco Revelli

Marco Revelli racconta
la deriva di una città che ha perso l’identità e l’anima, incapace di vivere persino il lutto con chi muore lavorando il ferro con il fuoco. Una lettura
impietosa
di Loris
Campetti
Marco RevelliGli operai torinesi, soli, «senza rappresentanza e senza
rappresentazione». Marco Revelli è sconvolto da quel che succede nel mondo
separato di una multinazionale tedesca, ma è sconvolto anche dalla risposta
solo operaia alla tragedia delle ferriere, in una città come Torino che aveva
una storia e una memoria di solidarietà trasversale, e oggi l’ha perduta. Pensa
al lavoro operaio, Revelli, un obbligo e una maledizione. Cancellato,
invisibile. In una «Torino gelida da ogni punto di vista».

Hai scritto molto sul Novecento e sull’uscita da
questo secolo segnato dall’homo faber. Hai anche ipotizzato un ritorno
all’Ottocento, alle radici del movimento operaio, alle società di mutuo
soccorso. La strage alla ThyssenKrupp ci dice che siamo tornati nell’Ottocento,
al ferro e al fuoco. Certo non è a questo Ottocento che pensavi.

Questo è l’Ottocento dei padroni delle ferriere. Non c’è
la solidarietà, se non quella di un pezzo di società operaia. Il corteo di oggi
(ieri per chi legge, ndr) segna la fine di Torino operaia e democratica. Nel
corteo c’era una parte sola, c’era il lutto di una sua sola parte. La
composizione del corteo era impressionante, una massa scura di facce operaie.
Tanti, forse trentamila, e soli, non più la città intera. C’erano gli operai di
Torino a piangere i propri morti. Le altre tante Torino non c’erano, ognuna a
ricorrere i suoi guai. I negozi erano chiusi, ma perché il lunedì mattina sono
sempre chiusi: nei giorni precedenti non ho percepito dolore e intensità di
passioni nel corpo cittadino. C’erano le istituzioni, è vero, distanti però, e
come tali percepite dagli operai. Pensa cosa sarebbe successo trent’anni fa in
una situazione analoga: nel palco ci sarebbe stato al centro il sindaco con la
fascia tricolore, e il consiglio comunale, e i rappresentanti dei partiti «di
classe», e il presidente della Camera. Invece questa volta chi c’era? Gianni
Rinaldini, a prendersi quei fischi rabbiosi che, insieme a pochi altri, non
avrebbe meritato. Nessuno che davvero è parte del ceto politico ha preso la
parola. Bertinotti c’era, per fortuna, ma non veniva percepito come lo sarebbe
stato Ingrao trent’anni fa. E così la piazza che piange rabbiosamente i suoi
morti non ha e non si aspetta solidarietà dall’esterno. Il Teatro Regio non ha
effettuato neppure un minuto di solidarietà. Sabato c’era lo shopping natalizio
nelle vie del centro, come sempre.
La solitudine fa vivere agli operai
gli altri da sé come un indistinto ceto politico. Ma il problema è proprio la
solitudine di un popolo cancellato.

Sono i guasti di questi decenni nella composizione sociale
di Torino, che ha scacciato i suoi operai in una grande buco. L’ideologia del
postindustriale, del capitalismo della conoscenza, del quaternario, dei poli
d’eccellenza, dei servizi avanzati ha nascosto sotto il tappeto il lavoro
feroce di chi si alza e va a lavorare nel fuoco o nell’amianto sapendo di
giocarsi la vita. Che strazio ascoltare le testimonianze delle mogli degli
operai uccisi e feriti: non un sabato o una domenica liberi, non c’é giorno né
notte, prigionieri di un lavoro che ti brucia la vita. La ThyssenKrupp è una
fabbrica in via di chiusura ma tutt’altro che marginale: è un’impresa centrale,
con quella che una volta si chiamava aristocrazia operaia, lavoratori con
contratto regolare in una grande multinazionale. E i figli che avrebbero preso
il posto dei padri, precipitati ora in una condizione intollerabile fatta di 12
ore di lavoro continuativo, e se non c’è il cambio a fine turno ricominci per
altre otto ore, senza estintori, sapendo che il tuo lavoro va a morire e tu
sarai stato cancellato. In quello stabilimento è rimasto chi era costretto ad
accettare per forza il comando aziendale e ogni volta che entrava in quella
fabbrica morente sapeva di rischiare la salute e la vita. E intanto l’altra
città, distante, va avanti, non vuol vedere e sapere, per illudersi di vivere
nel miglior mondo possibile.
E’ l’Ottocento ma non è il tuo Ottocento.
Non è neanche il Novecento della lotta di classe e dell’emancipazione
collettiva. E non c’è più chi, come tuo padre Nuto, ci avrebbe raccontato chi
erano i Thyssen e i Krupp nella Germania nazista.

Il mio Ottocento aveva Zola che scriveva Germinal, c’era
il racconto sociale. Ora niente e nessuno fa il racconto sociale del secolo
successivo, quello di Calvino o del Primo Levi della «Chiave a stella». Quattro
morti e gli ustionati gravi meritano qualche cenno di cronaca che lascia presto
il campo al gossip e alla cronaca mondana. Questa è la tragedia di un mondo
senza rappresentanza a cui è negata persino la rappresentazione. Nel corteo
mancavano tanto la Torino
alta con il loden che la Torino
bassa, quella dei migranti, con l’esclusione di chi fa l’operaio in fabbrica.
Fino a trent’anni fa il clima a Mirafiori era lo stesso che a Porta nuova.
C’è un fossato, dici, che separa la
città operaia dal resto. Come si riempie questo fossato?

E’ un fossato profondo che ha cancellato il lavorio di tre generazioni, neanche
il lutto riesce a colmare l’abisso. Non ci sono più i borghesi degli anni
Sessanta e Settanta che camminavano spalla a spalla con gli operai, che
s’incontravano in fabbrica, a volte i figli andavano nelle stesse scuole e un
operaio poteva sperare per suo figlio un futuro da ingegnere. La tragedia di
uno pesava sull’altro. Oggi è venuta meno anche la speranza di emancipazione,
se un operaio riesce a far studiare il figlio, sa che comunque, al massimo, da
grande sarà sfruttato in un call center.
La solitudine, dicevamo, distrugge la
capacità di comunicare. Ma torno alla domanda precedente: come si colma questo
fossato?

E’ difficile capire come far atterrare l’astronave di chi
naviga nella globalizzazione nel territorio delle vittime, dove si lavora il
ferro con il fuoco. Mi viene da dire una sola cosa: impegniamoci a costruire un
ponte sopra il fossato, per evitare di caderci dentro.

Il Manifesto 11.12.07

 

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