Il mondo abbandonato

Altri articoli all’ interno, dopo la continuazione dell’
editoriale di Gabriele Polo:

* Sciopero
e 30 mila in corteo a Torino dopo la strage alla ThyssenKrupp
. Fischiati e
contestati i sindacati. Un padre maledice i colpevoli
 di Manuela Cartosio.
* Delle
contestazioni parla Gianni Rinaldini, segretario generale Fiom.
«La collera è
comprensibile, dai politici nessuna lezione» «Non dormirete sonni tranquilli.
Avete il cuore di pietra e il portafogli gonfio. Bastardi» (Nino Santino, padre
di una delle vittime)
di
Sara Farolfi
.

* Ispezione
della Asl nello stabilimento torinese, tre dirigenti iscritti tra gli indagati.

E gli operai non vogliono rientrare
di Gianluca Gobbi 

Il mondo abbandonato
Editoriale di Gabriele
Polo – Il Manifesto 11.12.07

La rabbia profonda, il silenzioso rancore rotto da urla e
fischi contro chiunque avesse parvenza d’istituzione, la città ritratta in se
stessa e assente. Niente, meglio della giornata di ieri a Torino, può rendere
l’idea di quella che è oggi la condizione del lavoro, la «coscienza» di sé che
attraversa chi vive in fabbrica, la relazione con il mondo esterno e la
distanza dalla rappresentanza.
corteo di TorinoAnni di abbandono e rimozioni culturali e
politiche hanno scavato nel profondo delle coscienze, persino più a fondo di
dismissioni, ristrutturazioni, precarietà spacciata per stato di natura del
libero mercato. I lavoratori, impoveriti e precarizzati oltre il limite della
sopravvivenza fisica, hanno subito la marginalizzazione e molti tra loro la
stanno facendo propria, combattuti tra passività e rivolta. Oltre lo stereotipo
dell’operaio «naturalmente» legato al proprio lavoro, cosciente dei propri
diritti e «ovviamente» di sinistra, c’è la realtà – annunciata da tempo – di
persone che si sentono annullate e reagiscono in ogni modo possibile: fuggendo
dalla partecipazione pubblica, chiudendosi in gruppetti comunitari o esplodendo
in rabbia contro il paese ufficiale, considerato distante se non ostile. Sia
esso individuato in un politico, in un giornalista, in un sindacalista.
Cancellato – dal pensiero dominante – il dualismo capitale-lavoro, l’avversario
non è più il padrone, può essere chiunque.
Chissà se ne hanno coscienza i
dirigenti che sabato e domenica hanno dato vita a un embrione di unità politica
segnato da troppi retropensieri e troppe timidezze. Quell’atto doveroso e
richiesto a gran voce da ciò che resta del tessuto militante della sinistra non
sconta solo le difficoltà che vengono dallo stare in un governo che di sinistra
ha poco o nulla, né solo il travaglio di identità diverse da mettere in
comunicazione tra loro per un’azione comune. A pesare c’è soprattutto la
mancanza di una lettura della società, una concezione della rappresentanza
sempre più indistinta e perciò in crisi, la mancanza di efficacia prodotta dalla
crescente distanza tra ciò che si enuncia e ciò che si fa (o ci si riduce a
fare). O, per essere quasi banali, sapere a chi vuoi dare voce e contro chi. E
da lì trarre delle conseguenze. Perché, ad esempio, se si subisce in nome di
«superiori interessi politici» la diminuzione del costo degli straordinari per
le imprese, non ci si può poi stupire di fronte a turni di lavoro che arrivano
a dodici ore consecutive. Come è successo in quell’acciaieria di Torino. In
questi giorni sono state spese molte parole e molti minuti di silenzio per le
vittime della ThyssenKrupp. Sono stati promessi controlli più accurati e norme
più severe. Va tutto bene. Ma non sarà un consiglio dei ministri straordinario
a rimettere al centro dell’agenda politica la crucialità del lavoro e della sua
condizione. Non basterà un cartello elettorale di sinistra a ridare
automaticamente voce e speranza a chi lavora. Serve una rivoluzione culturale
che sposti il baricentro dell’azione politica dai palazzi alla società e che
consideri il lavoro e i suoi conflitti una risorsa, non un problema o un costo.
La «Cosa» (rossa o arcobaleno) parte da lì. O non parte proprio.


Sciopero e
30 mila in corteo a Torino dopo la strage alla ThyssenKrupp.
Fischiati e
contestati i sindacati. Un padre
maledice i colpevoli

di Manuela Cartosio

Torino. Maledice i colpevoli. «Non dormirete più sonni
tranquilli. Bastardi. Avete il cuore di pietra e il portafoglio pieno. Avete
rovinato tante famiglie. Tutto il mondo deve sapere il male che avete fatto».
Chiama per nome i morti – «Bruno, Antonio, Roberto, Angelo» – perché ci pensino
loro «da lassù» a ottenere giustizia. La voce di Nino Santino, padre di Bruno,
la vittima più giovane della strage alla ThyssenKrupp, ha accompagnato il
corteo a Torino nel giorno del lutto, dello sciopero e della rabbia.

I fischi ai sindacalisti saranno analizzati, interpretati
(per il verso giusto, si spera) e metabolizzati. Le uova e le pietre lanciate
dai centri sociali contro l’Unione industriali già oggi saranno archiviate come
un episodio a margine, visto centinaia di volte. Ma la voce di quel padre
resterà impressa nei 30 mila che dietro di lui hanno attraversato la città. In
un silenzio rotto dalle grida che si alzavano dalla testa del corteo, dai
lavoratori e dai pensionati della ThyssenKrupp. «Assassini». «Prima la
sicurezza, non dopo». «Giustizia». «Vediamo di non insabbiare tutto anche
questa volta». Lo slogan «Pagherete caro, pagherete tutto», riesumato da una
stagione che franava verso la sconfitta, si è trasformato strada facendo in un
meno cupo «Dovete pagare per tutto questo male». Che lega insieme la perentoria
richiesta che i colpevoli «non escano immacolati» (parole dal palco di Antonio
Boccuzzi, sopravvissuto al rogo sulla linea 5) e l’enormità del male inferto a
chi lavora nelle acciaierie, nei cantieri, sulla strada, alla catena di
montaggio.
«Il mandante è il profitto», mormora un pensionato in
piazza Castello, mentre fischi e invettive coprono le parole dei sindacalisti
che prendono la parola dal palco (dove non c’era la fascia tricolore del
sindaco Chiamparino). La folla ascolta in silenzio solo Boccuzzi; il
«sopravvissuto» accusa la
ThyssenKrupp d’aver lasciato «andare al collasso» lo
stabilimento torinese, invita a non dare la colpa ai lavoratori e ai sindacati.
L’ultimo invito non fa presa. E sono fischi indifferenziati per tutti i
sindacalisti. Ne fa le spese il segretario nazionale della Fiom Gianni
Rinaldini, che interviene anche a nome di Fim e Uilm. «Basta parole, servono i
fatti». «Buffoni». «Venduti». «State seduti dietro le scrivanie». «Andate a
lavorare». Commento a caldo di Giorgio Cremaschi, della segreteria Fiom:
«Questi fischi ci fanno bene. Il sindacato non ha una responsabilità diretta in
questa strage e e nei troppi omicidi bianchi. Ma condizioni di lavoro
insopportabili e salari troppo bassi che espongono ai ricatti sono conseguenze
di quindici anni di concertazione fatta anche dal sindacato. Detto questo,
nessuno che non sia un lavoratore venga a farci la lezione». Giorgio Airaudo,
segretario della Fiom di Torino, definisce «legittima e comprensibile» la
contestazione. «Però il sindacato è qui, in piazza e in sciopero, a discutere
anche dei suoi limiti con i lavoratori». Lavoratori ricattabili hanno sindacati
deboli e viceversa. Questo il pensiero di Airaudo che sollecita gli organi
d’informazione a non «spegnere le luci» tra qualche giorno sulla strage alla
ThyssenKrupp e sulla «condizione operaia».

Airaudo e i lavoratori della Thyssen confermano che
nell’acciaieria ormai in disarmo e sguarnita di personale si lavorara a più non
posso perché a Terni c’era stato un guasto e l’azienda aveva «girato» a Torino
una commessa. «Quella era la mia squadra», racconta un operaio che ha lasciato la ThyssenKrupp un mese
fa. «Forza correre, correre, ci dicevano, e il nastro partiva con ancora la
gente sopra. Ti facevano la multa se pisciavi contro il muro e non ricaricavano
neppure gli estintori. Sono dei delinquenti».

Ciro Argentini, delegato della Fiom, non vuole neppure
perdere tempo a commentare le note autoassolutorie diramate dalla ThyssenKrupp.
«Non hanno etica aziendale, ammesso che esista. E non hanno etica umana». Lui
preferisce parlare di «operai, operai, operai». Stampatevela bene in mente
questa parola, dice ai cronisti, «continuiamo a esistere». Anche le fabbriche
continuano a esistere, prosegue un pensionato Fiat, «ma i politici compresi
quelli di sinistra se ne ricordano solo in campagna elettorale. Una visitina e
via».

Il torinese don Luigi Ciotti non sa dire se la città è
davvero scossa nel profondo dalla strage alla Thyssen. Ammette che persino le
nostre parole sono «stanche». Non dobbiamo comunque smettere di pretendere
«verità, giustizia, dignità». Secondo il segretario della Fillea del Piemonte
la «risposta solidale» è venuta anche da ambienti distanti dal sindacato e
dalla tute blu. Ma, è una nostra impressione, è una solidarietà che sembra
esaurirsi nella raccolta di fondi per le famiglie delle vittime.

Già alla partenza del corteo, in piazza Arbarello,
trasparivano considerazioni critiche o amare sul sindacato, preludio dei fischi
successivi. «Adesso sventolano tante bandiere, farebbero meglio a pensarci
prima, a prevenire», dice un’impiegata dell’Agenzia delle entrate. «Gli operai
esistono solo quando fischiano o quando muoiono», constata Daniele Brabuto,
della Embraco di Chieri. Pur essendo delegato (o proprio perché lo è), dà
ragione a chi «si lamenta» del sindacato che non può o non vuole farsi valere.
«Abbiamo paura e abbiamo perso potere, le nuove leve di lavoratori sono state
tirate su a ricatti».

Al corteo c’erano ministri (Turco, Ferrero e Damiano),
politici (il segretario di Rifondazione Giordano) e il presidente della Camera
Fausto Bertinotti. «Bisogna rispettare il dolore della gente e il miglior modo
per farlo sono il silenzio e l’ascolto», ha risposto Bertinotti a chi gli
chiedeva un commento sulla contestazione ai sindacati. Una cosa comunque l’ha
detta: servono sindacati forti per arginare lo scandalo delle vite spezzate dal
lavoro.
«Basta!!!», c’era scritto sullo striscione dei
metalmeccanici torinesi.


Delle
contestazioni parla Gianni Rinaldini, segretario generale Fiom
«La collera
è comprensibile, dai politici nessuna lezione» «Non
dormirete sonni tranquilli. Avete il cuore di pietra e il portafogli gonfio.
Bastardi» (Nino Santino, padre di una delle vittime)
di Sara Farolfi

Dolore e disperazione, collera e rabbia. Un impasto
esplosivo di sentimenti che, ieri a Torino, si è riversato direttamente sui
sindacati presenti. «Una collera del tutto comprensibile – è il commento di
Gianni Rinaldini, segretario generale Fiom – Siamo di fronte a lavoratori che
hanno visto i colleghi bruciare vivi, e non dimentichiamo che ci sono ancora
tre lavoratori in condizioni gravissime». Una giornata nazionale di lotta per
la sicurezza, con 4 ore di sciopero, è stata proclamata da Fim, Fiom e Uilm per
venerdì prossimo.

Come leggi le
contestazioni e i fischi che ieri non vi hanno certo risparmiato?

Gli operai hanno chiesto fatti e non più chiacchiere,
hanno chiesto che i responsabili siano colpiti e che la vicenda non finisca,
come spesso accade, nel silenzio. Questo esprimeva la contestazione. Uno stato
d’animo comprensibile, scaricato verso chi con loro interloquisce. Uno stato
d’animo che si riversa su tutti, giornali e tv, per non dire dei politici.
Tu stesso però, non
molto tempo fa, avevi denunciato il rischio che il sindacato corre di essere
percepito come ceto politico.

Sì, ma questo va al di là della contestazione c’è una
questione evidente ed è quella di come rafforzare il ruolo della
contrattazione. Ieri però non c’è stata nessuna rottura, abbiamo iniziato
insieme il corteo e insieme lo abbiamo concluso. Emerge la sensazione di
isolamento della condizione del lavoro industriale e ci segnala il problema, il
livello intollerabile a cui è giunta ormai la condizione dei lavoratori. Trovo
curiose però le dichiarazioni politiche di chi, fino a tre giorni fa, diceva
della troppa conflittualità, o persino dell’antimodernità, dei metalmeccanici.
Oggi quelle stesse persone ci vengono a dire che va recuperata un’iniziativa
sindacale sull’organizzazione del lavoro.
Ti riferisci a quanto ha detto Damiano in questi giorni?
Sì, ma anche a quanto hanno riportato i giornali negli
ultimi giorni. Oggi tutti scoprono che nel lavoro industriale c’è stato un
processo di marginalizzazione su cui riflettere. Un peggioramento delle
condizioni dei lavoratori su tutti gli aspetti. L’istinto sarebbe quello di
dire altro, ma la prendo per buona e spero che tra tre giorni non tornino a
rispolverare la litania contro il sindacato dei metalmeccanici.
Il ministro Damiano
ha detto anche che sono gli stessi contratti nazionali a prevedere, nei cicli
continui, la permanenza al lavoro oltre le otto ore in caso di mancata
sostituzione.

Si tratta di una norma contrattuale che nulla a che fare
con la strage alla ThyssenKrupp. La norma prevede che gli impianti pericolosi
non possano essere abbandonati. Nel caso di Torino invece si trattava di
straordinari. I lavoratori erano lì non perchè non ci fosse stata la
sostituzione, ma per fare ore di lavoro straordinario. Il problema vero è che,
in questi anni, c’è stata tutta una legislazione sul lavoro sbagliata.
Per esempio?
La legge 66 sull’orario di lavoro, approvata durante il
governo Berlusconi, che non prevede più il massimo giornaliero. Si dice che,
nelle 24 ore, devono essercene 11 di riposo, il che significa che si può
arrivare a lavorare fino a 13 ore. I contratti naturalmente dicono un’altra
cosa, in quello dei metalmeccanici è rimasto il limite di otto ore più due di
straordinario. Questo però è indicativo. Perchè dunque la politica non inizia
da quello che può fare?
Nel protocollo si è
decisa invece l’abolizione della sovracontribuzione sugli straordinari.

Ho già avuto modo di dire che la ritengo una norma
sbagliata.
Il delegato sindacale
alla Tk ha detto ieri, «abbiamo sbagliato, noi siderurgici abbiamo barattato
l’orario di lavoro in cambio di denaro».

I padroni chiedono da sempre di monetizzare il disagio.
Noi siamo contro la monetizzazione e contrare a legare gli aumenti retributivi
alla presenza, che significa più salario se ci si ammala poche volte. Alla
ThyssenKrupp però c’era una situazione particolare, dettata dall’imminente
chiusura della fabbrica. Cosa che ha reso più facile il ricatto.
Come giudichi
l’atteggiamento delle imprese?

La richiesta di
ThyssenKrupp di riprendere il lavoro è un atto semplicemente vergognoso. Ma le
questioni della sicurezza riguardano anche il contratto nazionale aperto.
Federmeccanica ha respinto la richiesta di un’assemblea annua per la sicurezza,
come ha respinto quella per dare ai rappresentanti dei lavoratori più ore di
permesso sindacale. E questo la dice lunga sulla sensibilità delle imprese.


Ispezione
della Asl nello stabilimento torinese, tre dirigenti iscritti tra gli indagati.
E gli operai non vogliono rientrare
di Gianluca Gobbi

L’attività produttiva alla ThyssenKrupp sarà sospesa fino
a quando non saranno terminate le ispezioni condotte da Asl e Arpa. Lo rende
noto il sottosegretario alla Salute Gian Paolo Patta, al termine dell’incontro
tenutosi al ministero con le parti sociali e i rappresentanti dell’azienda.
Spetterà al tavolo tecnico istituito presso la Prefettura torinese
(cui parteciperà la multinazionale) stabilire se e quando far ripartire
l’impianto di corso Regina Margherita, mentre un altro tavolo dovrà delineare
il futuro della multinazionale in Italia.

Patta ha spiegato che il Testo Unico della sicurezza sul
lavoro approntato ad agosto fornisce gli strumenti per sospendere l’attività di
un’azienda fino a quando non sono garantite le condizioni di sicurezza per la
ripresa del lavoro. Proprio per verificare la situazione all’interno
dell’impianto, ieri alla ThyssenKrupp presenza in forze di ispettori dell’Asl
1, per quello che il dirigente medico Annalisa Lantermo ha definito «un
sopralluogo straordinario, anche con finalità di prevenzione, per evitare che
ci siano nuovi incidenti in caso di riapertura dell’acciaieria». Un’eventualità
che molti dei circa 200 lavoratori rimasti temevano già ieri, tanto che il
corteo che ha attraversato il centro cittadino per raggiungere piazza Castello
ha avuto due tempi supplementari: il primo di fronte alla sede dell’Unione
Industriale, l’altro proprio di fronte alla ThyssenKrupp, a seguito delle voci
insistenti sulla volontà dell’azienda di far ripartire l’attività produttiva
già nel pomeriggio. L’azienda (che dopo il vertice al ministero non ha voluto
incontrare i cronisti) domenica aveva diffuso da Berlino una noterella di due
pagine per affermare che a Torino «sono stati mantenuti elevati standard di
sicurezza, regolarmente verificati dalle autorità preposte, anche perché è sua
filosofia investire per la sicurezza risorse umane ed economiche superiori a
quelle richieste».

Dichiarazioni lette con sgomento dai lavoratori in piazza,
intenzionati a non tornare a lavorare nell’acciaieria che ormai per loro
rappresenta un luogo di morte. Luigi Santino, che ha perso il fratello Bruno,
conferma che «nessuno di noi si sente di tornare in quel posto orribile. Mi
cercherò un posto, anche se so che non sarà facile». Un altro urla che il suo
amico Rosario Rodinò, ricoverato in condizioni disperate al centro grandi
ustionati di Genova, «ha cercato fino all’ultimo di cambiare il suo turno ma
non ce l’ha fatta e ora rischia di morire! E io con i vostri 15mila euro mi
pulisco il c…». Ce n’è anche per la stessa Asl 1, dato che un lavoratore
afferma di aver contattato la struttura per denunciare alcune carenze
riguardanti la sicurezza ricevendo come risposta: «spedisca un fax…». «Ma io
sono un operaio: il tuo lavoro è l’ispettore e quindi devi venire in azienda,
altro che fax!» Che non fosse giornata da facili applausi lo si era capito
subito, quando l’unico ad essere invocato a più riprese era il procuratore
Raffaele Guariniello. E proprio il procuratore aggiunto, che conduce le
indagini insieme ai pm Laura Longo e Francesca Traverso, torna a chiedere
l’istituzione di una struttura nazionale, sul modello della Direzione Nazionale
Antimafia: un pool di magistrati esperti nel settore della sicurezza sul
lavoro. Per verificarne l’efficacia è sufficiente guardare Oltralpe.

Sul fronte dell’inchiesta, sono iscritti nel registro
degli indagati per lesioni, omicidio e disastro colposi l’ad Harald Espenhahn e
due membri del cda, Gerard Priegnitz e Marco Pucci.

Questa voce è stata pubblicata in razzismo /cpt / migranti /società / movimenti / pace / diritti. Contrassegna il permalink.