Così si vive a Cassibile, reportage dal cpa siciliano

CPA Cassibilefonte Fortress Europe

Roma, 25 novembre 2007 – Roman Herzog, un giornalista
tedesco, ha visitato a metà novembre il centro di prima accoglienza di Cassibile, a Siracusa, in Sicilia.
Riceviamo e pubblichiamo volentieri il suo reportage. Da un lato emergono le condizioni
degradanti in cui migranti e rifugiati sono detenuti, compresi donne e bambini.
Dall’altro, nelle parole di chi ricorda il viaggio, ritornano le gravi denunce della situazione
in Libia.

Da una prigione all’altra
Rapporto dall’interno del Centro di Prima
Accoglienza di Cassibile

di Roman Herzog

Siracusa – Il bambino
di quattro anni spinge la testa contro le sbarre. Ma c’è poco da fare. È già
troppo grande, oppure sono le sbarre ad essere troppo strette: una ogni dieci
centimetri. La recinzione è alta cinque metri e mezzo, le sbarre finiscono con
delle punte temperate. L’ultimo metro è opera recente, si vedono ancora i segni
delle saldature e della vernice. Seduti dall’altro lato della gabbia, i
carabinieri si godono il sole del primo pomeriggio. Fissano silenziosamente il
bambino, senza nessuna reazione. Da qui non può scappare nessuno. Siamo
all’interno del Cpa (Centro di prima accoglienza) di Cassibile, in provincia di
Siracusa. Un’area ingabbiata di 40 metri per 20. All’interno, un cortile e una
struttura di due piani, senza finestre al secondo piano. Si tratta di una delle
principali strutture di detenzione dei migranti sbarcati in Sicilia. Nel mese
di ottobre 2007, centinaia di migranti e rifugiati sono arrivati lungo le coste
siracusane, ma negli ultimi dieci giorni non ci sono stati nuovi arrivi. Eppure
al Cpa si trovano 170 persone, chiuse in una struttura fatiscente,
improvvisata, che basterebbe al massimo per 100 persone, e dove le persone per
legge non dovrebbero rimanere se non per un breve periodo in attesa di essere
trasferiti in altri centri, e in particolare i minorenni non dovrebbero essere
rinchiusi se non per il massimo di 96 ore. Ma l’assistente sociale Angela Odo sottolinea che “la
capienza è di 150 persone”, e che “le 170 presenze sono poche, visto che negli
ultimi mesi ci sono state stabilmente oltre 400 persone”. Mi spiega che il
problema è strutturale e che dipende della burocrazia, perché per essere
smistati, “si devono smaltire prima un po’ di stranieri negli altri centri di
permanenza”.

Il gruppo più consistente a Cassibile è quello degli eritrei, arrivati a Portopalo due
settimane fa, il 31 Ottobre, in 255
a bordo un peschereccio libico. Al momento del
trasferimento da Rosolini (Sr), dove sono rimasti per due notti in un capannone
di proprietà di un contadino, più della metà sono scappati. Gli altri sono
rinchiusi a Cassibile e hanno voglia di raccontare. Michiel, laureando in biologia
marina, è uno dei più silenziosi. La sua storia è analoga a quella di quasi
tutti gli eritrei a Cassibile. Aveva già tentato di arrivare in Europa due volte. La prima, nel luglio
2006, è stato preso dai poliziotti libici, avvisati dagli stessi passeur. Poco
prima dell’imbarco, i poliziotti hanno arrestato 35 persone, fra cui Michiel, e
le hanno trasportate in camion a Misratah. 
Quella di Misratah è una prigione libica “ormai famosa in tutto il
mondo” dice Michiel, “ma sono tante le carceri per i rifugiati in Libia:
Fellah, Khums, Sabha, tantissimi che non si conoscono nel mondo”. Michiel sa di
cosa parla.

A Misratah è rimasto
per un mese, con altri 400 Eritrei, un bicchiere di acqua sporca e un cento
grammi di pane duro al giorno, senza assistenza medica, sotto continue
bastonate e torture. “I libici non ti parlano, ti bastonano, questa è la loro
unica forma di comunicare con noi”. Michiel ha passato diversi giorni in cella
d’isolamento, al buio, un metro per un metro. Dall’inferno di Misratah è
riuscito ad uscire soltanto pagando 250
dollari
. Ha avuto fortuna: le guardie non sempre si lasciano
comprare, com’è successo a centinaia di altri eritrei detenuti a Misratah da
più di un anno e mezzo. Michiel ricorda due
morti
a Misratah: “Li mettevano in una cellula di
refrigerazione. Non avevano documenti, non sanno chi sono, non lo so cosa ne
fanno con i cadaveri”. Michiel non conosce la lista delle richieste del governo
libico all’Unione europea, svelata dal rapporto dell’ultima missione tecnica in
Libia dell’agenzia Frontex, che prevede, fra l’altro, l’invio a Tripoli di 118
camion, 16 dei quali con cella di
refrigerazione
. Lo stesso rapporto – datato maggio 2007 e
diventato pubblico da quattro settimane – parla di 60.000 rifugiati attualmente
detenuti in Libia, paese che non riconosce nemmeno lo status di rifugiato
dell’Acnur (Alto commissariato per i rifugiati della Nazioni Unite).

Michiel sa dei 40 eritrei di Misratah arrivati in aereo il 9
novembre scorso a Roma, e ritiene che l’Europa dovrebbe lasciare entrare tutti
i rifugiati in questa forma, non solo gli eritrei, senza che però debbano prima
trascorrere mesi o anni nelle carceri libiche o di altri paesi nordafricani.

Quello che Michiel non dimenticherà mai è la deportazione da Misratah a Kufrah, nel novembre 2006. Venne
caricato con altri 200 profughi in un container,
tenuti al buio e con un filo d’aria che entrava dagli unici due finestrini, in
alto, ma sopratutto senza acqua né cibo. “Dopo un’ora faceva un caldo
pazzesco”, racconta Michiel, “alcuni vomitavano sul fondo del camion, in mezzo
ai bisogni degli altri. Dopo 20 ore, due donne e due bambini sono svenuti.
Quando, cinque ore più tardi, hanno aperto le porte del camion, al confine col
Sudan, a Kufrah, due di loro erano morti”. Gli altri vennero bastonati fino al carcere a cielo
aperto di Kufrah, 2.000
chilometri a sud di Misratah. “Da lì finisci morto nel deserto, o paghi il ritorno a
Tripoli”, altri 300 dollari.Michiel tornò a Tripoli e poi si imbarcò su un
gommone zodiac con altre 37 persone, con il maltempo, quando i pattugliamenti
sono meno frequenti.

Non avevano il Gps,
la bussola andava male, rimasero 48 ore in mare senza sapere dove andavano,
finché la benzina finì. Intanto un uomo e un bambino erano morti, e i loro
corpi furono gettati in mare. Dopo un’altra mezza giornata alla deriva, vennero
intercettati dalla guardia costiera tunisina, e riaccompagnati in Tunisia. Rinchiuso per una
settimana in una prigione a Tunisi, Michiel venne poi deportato al confine fra
Tunisia e Libia, in mezzo al deserto. Da lì, raggiunse Zuwarah, dopo dieci ore
di marcia. E da Zuwarah
iniziò il suo terzo tentativo di fuggire in Europa. Ma prima telefonò alla sua
famiglia per chiedere loro di vendere un’automobile e mandargli i soldi
necessari, perché non voleva di nuovo partire con uno zodiac per 800 euro, “e
non potevo tornare in Eritrea perché lì ero stato in prigione per aver
protestato contro il governo, e poi perché avrei comunque dovuto fare di nuovo
il viaggio nel Sahara”. Di quello non ne vuole più sentire parlare, ha visto
troppe cose terribili.

Tornò a Tripoli con un trafficante, ma mentre cercava un passeur venne di nuovo
preso dalla polizia, in strada, e detenuto al carcere Al-Fellah di Tripoli, “prigione
ancora più dura di Misratah”. Voleva uscirne subito e a tutti i costi. Pagò,
400 dollari. E cercò immediatamente una barca. “Un mezzo più sicuro costa 1.700
Euro, un peschereccio, con il quale i libici ti portano in Sicilia”. Dopo tre
giorni in mare agitato è arrivato a Portopalo
assieme agli altri 254 rifugiati, quasi tutti eritrei. “Anche se nessuno è
morto stavolta”, il capitano, “cosiddetto” sottolinea Michiel, ha passato
troppo tempo in mezzo al mare senza trovare la direzione, la bussola non
funzionava bene, e le altre barche che passavano al loro fianco, non
rispondevano alle loro richieste d’aiuto.

“E qua – dice Michiel – qua siamo nuovamente in una prigione, da una prigione
alla altra, non ne posso più”. Da 14 giorni è ingabbiato a Cassibile. “I bambini del nostro gruppo
ci hanno chiesto, se siamo di nuovo in Libia, perché anche molti di loro sono
stati imprigionati lì”. Come Fuad, un ragazzo molto sveglio per i suoi nove anni. Vuole fare il medico,
quando uscirà da Cassibile. Ringrazia l’Italia di averlo accolto, ma parla
anche della traversata paurosa e delle sue settimane in carcere in Libia.
Chissà sua madre che cosa sara stata costretta a fare per essere rilasciata con
i tre bambini.

Michiel ci fa la guida
all’interno del campo di Cassibile e ci mostra tutto: Le stanze sono di diversa
misura, piccole e grandi sale, tutte però piene fino all’orlo di materassi e
letti a castello. Lo spazio fra i letti è talmente stretto che le persone un po’ più
grasse non ci passano. Dai materassi, in maggioranza sporchissimi, hanno tolto le molle,
e sul nudo pavimento si sgonfiano quasi completamente. Un posto letto su cinque
si trova sul pavimento nudo. “Non abbiamo lenzuola” mi avevano raccontato le
donne eritree prima, lo vedo, nessun lenzuolo su nessun materasso “Oggi la
macchina che ci porta le lenzuola pulite è in ritardo” mi dice l’assistente
ludica Cecilia più tardi all’uscire.

Nella sezione maschile non c’è riscaldamento e nelle stanze non ci sono
finestre. “Da dove entra l’aria?” chiedo a Michiel ed i suoi compagni di
stanza. Dormono in otto in una stanza di tre metri per tre metri. Si mettono a
ridere. Non c’è aria fresca. Per i 90
uomini
ci sono due lavelli, tre docce e due gabinetti, senza porte. Le
docce sono chiuse con tende di plastica improvvisate riciclando dei sacchi neri
dell’immondizia, tenuti insieme con del nastro adesivo. Non sono sporchi, “il
personale mantiene pulito”, dice Michiel, ma sono fatiscenti, e non bastano. Le
donne hanno due lavelli, una doccia e due gabinetti, tutti con delle porte, per
50 donne però, e per 30 bambini.

Michiel mi mostra nel tratto degli uomini una sala grande con circa 30 posti
letto vuoti. “Qua c’erano degli egiziani
fino all’altro ieri, li hanno rimpatriati”. Grazie all’accordo di riammissione
fra Italia e Egitto, gli egiziani che arrivano in Italia vengono subito
rinviati al loro paese dai Cpa, dopo essere stati intervistati dalla
scientifica, che, a Cassibile come negli altri centri, prende a tutti le
impronti digitali. La sensazione generale nel Cpa di Cassibile è una sorta di apatia, tanti profughi
semplicemente non si muovono dai materassi. Non c’è spazio per spostarsi, è
tutto in uno spazio ristretto. L’unico posto di ricreazione è l’esterno. Lì le
donne passeggiano lungo le sbarre e i bambini giocano a pallavolo con gli
adulti, contro una rete improvvisata, fissati dalla squadra di sei carabinieri
in servizio. Si sente una sorta di tensione, ma rimane tutto stranamente calmo.

Abiola, dalla Nigeria
ha portato la sua famiglia, la moglie Memont e il figlio Ibrahim. Hanno poco più di
venti anni, il figlio ha due mesi, è nato al CPA. “Io sono il più vecchio qui”
mi dice Abiola. “Sono in questo carcere da due mesi e dieci giorni”. Quando mi
racconta dell’arrivo in Sicilia, gli brillano gli occhi, ma un attimo dopo il
suo sguardo è durissimo. “Aspettavamo la liberta” mi dice, “questo, non è
libertà”. Abiola mi
racconta la sua fuga dalla prigione in Nigeria, e di quante esigenze primarie
non sono soddisfatte a Cassibile. “Il cibo è scarso”, dice, “ci siamo ammalati
in tanti”. Me lo confermano gli eritrei: “non mangiamo da tre giorni, ci hanno
fatto venire la diarrea”. Sono in sciopero della fame. Vogliono parlare con la
“direttrice della prigione” come la chiamano, “vogliamo sapere cosa sarà di noi”.
“Non abbiamo commesso nessun crimine, perché ci mantengono qua dentro” si
arrabbia Semere, “è
giusto questo? Dove sono i nostri diritti? Abbiamo dei diritti!”

Il giorno dopo, all’uscita del suo ufficio, l’avvocato del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir)
si lamenta con me, “Ora arrivano quasi tutti informati, sanno dei loro diritti
e sanno cosa li aspetta”. Gli chiedo cosa fa qua a Cassibile. “Mi lascio
raccontare la loro storia e cerco di vedere da dove vengono e se è vero cosa
raccontano”, mi dice. “Ma le domande di asilo si fanno pure qua?”, mi dice di
sì, e quando dico che però è un Cpa e non un Cid, mi risponde, “si è vero, ma
sai, qua non si capisce ancora bene
che tipo di centro è; è stato un Cpt nel 2005, per questo c’è la nostra
presenza, però la domanda di asilo da qui la mandiamo al Cid”.

L’assistente Cecilia ogni tanto prova a convincermi dell’esagerazione delle
pretese dei rifugiati: “qua hanno tutto”, dice. Mi racconta che sono presenti
l’Acnur, la Croce
rossa, il Cir “e anche l’Arci ha un progetto qua”. Oggi c’è una donna della
Croce Rossa, che però resta la maggior parte del tempo dall’altro lato delle
sbarre. L’avvocato del Cir ieri non c’era, e mi dice “oggi normalmente non
dovrei essere qua. Siamo in due, ognuno viene due volte la settimana”.

Due donne portano Frewoini
da me e la fanno sedere. Non riesce a camminare da una settimana, “le mie gambe
tremano” dice “e non
mi tengo in piedi”. L’avevo già vista ieri, sempre accompagnata dalle stesse
amiche. “Voglio andare in ospedale, l’ho già chiesto. Mi dicono di parlare col
medico del campo. Ma quello mi dà semplicemente una pillola, una di queste
pillole che dà a tutti. Le mie gambe però così non guariscono”. L’assistente
ludica Cecilia mi risponde che avevano deciso di portarla in ospedale, ma che
quel giorno non era stato possibile. L’ospedale di Avola dista meno di cinque chilometri. È sulla
provinciale 115, la stessa strada dove si trova il Cpa, ma è lo stesso
irraggiungibile per Frewoini e gli altri ingabbiati.

Frewoini è passata da tre carceri in Libia. È stata a Misratah ed è stata
deportata nei container sui camion diretti a Kufrah. Mi racconta con la sua
voce, fino a che non ne può più, di questi carceri, e mi chiede quale crimine abbia commesso per
meritare tutto ciò. Frewoini si lamenta del centro, manca il bagnoschiuma,
quello che danno non basta, ma anche gli assorbenti per le donne. Simret, una
altra donna eritrea mi mostra i suoi capelli lunghi crespi. “Non li riesco a
pettinare, ci vuole l’olio, ma qua non c’è”. Anche altre donne hanno lo stesso
problema. Simret mi mostra delle chiazze di calvizie sulla testa. “È lo stress” dice, “perdo i capelli,
sono troppo nervosa”. “Siamo tutti molto stressati qua” sottolinea Frewoini.
Stressati, e spesso traumatizzati, ma in ogni caso senza l’assistenza e il
sostegno adeguati. Altre donne eritree e somale mi mostrano la pelle dei loro bambini, pieni di escoriazioni.
Servirebbero pomate, ma non ci sono.

C’è un’altra donna con dei problemi alle gambe, anche lei avrebbe bisogno di un
ricovero e anche lei ha ricevuto la solita pillola di cui parlava Frewoini. Me
lo confermano altri rifugiati, “c’è una pillola per tutti” dice James. Lui viene dalla Nigeria. Mi
chiede delle scarpe, “perché qua ci danno soltanto queste ciabatte da mare”.
Eppure anche in Sicilia l’estate è finita e da alcune settimane fa freddo, specialmente la notte.
James mi chiede anche un paio di jeans, “misura 36, non c’è l’hanno qua questa
misura” mi dice. Indossa i pantaloni di una tuta, “sono gli unici vestiti che
ho”. James è a Cassibile da più di due settimane. Semere mi chiede senza
vergogna, assieme agli altri uomini eritrei, di portare loro degli slip, “ce ne hanno dato solo un
paio” mi dice, “e manca il bagnoschiuma. All’inizio ci davano una piccola
bottiglia di bagnoschiuma” mi dice indicando uno spazio di cinque centimetri
tra il pollice e l’indice della mano destra. Secondo l’assistente Cecilia il
problema è che “fanno anche il bucato col bagnoschiuma, per quello non basta, e
comunque adesso devono aspettare la prossima distribuzione”. Il sapone infatti
arriva una volta ogni dieci giorni. 30
millilitri a testa
.

Intanto gli eritrei hanno sospeso lo sciopero
della fame
. Li incontro all’ingresso della mensa. La direttrice
ha accettato di incontrarli stamattina. E ha spiegato loro che saranno tutti
trasferiti in altri centri di permanenza, sui tempi non ci sono certezze,
devono ancora aspettare che la commissione per il riconoscimento dello status
di rifugiato li chiami per le interviste. Mi ritorna in mente lo “smaltimento”
di cui parlava Angela Odo.

Dura a lungo oggi il pranzo. Volevo intervistare le donne somale, ma non sono
disponibili. Cecilia mi aveva consigliato di parlare con loro, “sono state
violentate nel Darfur,
i loro mariti dovevano difenderle ma sono stati ammazzati”. Il loro capo gruppo
non vuole che le intervisti. Sono traumatizzate e non vuole rischiare, nemmeno
io.

Guido, il mediatore eritreo mi suggerisce di parlare con un eritreo e mi indica
un profugo con delle ferite ovunque. “Ha ricevuto elettroshock e altre torture in
Libia, ora è fuori di testa”, e non parla. Anche Guido non prende sul serio le
richieste dei rifugiati, “non sanno cosa li aspetta”, mi dice, “questo è il
paradiso rispetto ad altri centri, ma lo sapranno soltanto dopo. Qua ci sono
due pasti al giorno, primo, secondo, e frutta. Qua ricevono vestiti, sigarette
ogni tre giorni, bagno schiuma, assistenza medica, possono vedere l’avvocato,
c’è tutto.” Anche Guido è arrivato via mare in Sicilia quattro anni fa, sa
degli altri centri.

Un piccolo gruppo di palestinesi e irakeni mi chiama. Non riusciamo a
comunicare, perché non parlo l’arabo. E tuttavia l’irakeno Abdullah insiste, vuole per forza
che mi siedo con loro e vuole avere il microfono. Inizia a cantare. Si siedono
intorno in molti, tutti ridono e danno il ritmo battendo le mani o delle
bottiglie di plastica contro le sedie. Abdullah canta con una voce simile a
quella di Khaled, in un crescendo di energia.
Si entusiasmano tutti, e diventa sempre più forte. Pure i bambini si godono la
canzone e ballano. Addirittura i carabinieri si alzano dalle loro sedie.
Finisce con un applauso e un grido liberatorio di tutti i migranti. Prima di
uscire chiedo a Abdullah di cosa parlava la sua canzone. Una donna eritrea fa
da interprete. L’ha improvvisata, mi dice, e l’ha chiamata la “Canzone del campo”.

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