Gli «uomini tonno»

Storie migranti Gli «uomini tonno» e la madre illegale. Destini mediatici
«Abbiamo cantato per restare in vita»
Per 3 giorni rimasero aggrappati a una
gabbia per tonni nel Mediterraneo. Ora raccontano la loro vita in
Italia e ricordano quelle ore: «Volevamo farla finita»
Nicola Angrisano*

tonnara migrante«Quando abbiamo cominciato a urlare, perché
non riuscivamo più a stare aggrappati alle reti, il peschereccio ha
dato corda per potersi allontanare… non volevano sentirci gridare, ma
neanche ci hanno fatto salire a bordo!». Il racconto di Justice è di
nuovo lì, ancorato a quei tre giorni di maggio appesi alle reti dei
tonni. Ventisette uomini abbandonati in mezzo al Mediterraneo, mentre
la burocrazia internazionale litigava su quale paese dovesse prendersi
l'onere del salvataggio, se Malta o la Libia. Immagini di un dramma
spettacolare che hanno fatto il giro del mondo, parlando anche a nome
delle tantissime tragedie silenziose che si consumano di continuo lungo
le rotte del mare proibito.
In diciotto si trovano ora nella
provincia di Caserta. Vengono dalla Nigeria, dal Niger, dal Ghana, dal
Burkina Faso, dal Togo: la Campania come meta involontaria decisa dalle
strategie imperscrutabili della questura di Crotone, che fornisce i
biglietti del treno. Li incontriamo nei giardini del centro di
accoglienza «Fernandez» per proporgli un video.
Loro mostrano la
prima pagina dell'Independent, ricordano i servizi sulla Bbc e le
Figaro.. reliquie di un naufragio che diventa un media-event globale. I
più avvertiti sanno che tanta visibilità probabilmente gli ha giovato.
Quello che non possono immaginare è che effettivamente la loro
statistica ha dell'eccezionale: ventisette riconoscimenti di protezione
umanitaria su altrettanti casi, in un paese in cui la tutela dei
rifugiati è troppo spesso un terno al lotto.
Il racconto corale
non dimostra affatto le malizie dell'abitudine ai media. La memoria
riemerge con timidezza, senza epica gratuita. Adama, burkinabe, ricorda
«le gambe gonfie per l'acqua e la corda con cui ci siamo legati quando
la stanchezza è diventata insopportabile». Con la paura e lo sfinimento
arriva anche la voglia di farla finita, «anche perché – aggiunge John-
prima del naufragio eravamo già stati una settimana in balia del mare»
e così «mentre stavamo attaccati alla rete abbiamo cominciato a pregare
e cantare tutti insieme per farci coraggio, per impedire che qualcuno
si buttasse in acqua».
Tre giorni passati a parlarsi e a gridare
insieme, tra ventisette persone che non si erano mai incontrate prima.
Hanno condiviso tutto, dalla disperazione alle venti mele che, secondo
l'accusa di Adama, sono «l'unico sostegno venuto dal peschereccio.
Dicevano che sarebbero affondati se provavano a imbarcarci, ma era
evidentemente una bugia ». Un cinismo ingiustificabile, il frutto
avvelenato della criminalizzazione delle migrazioni: ancora si
ricordano i casi di pescatori come Corrado Scala di Portopalo, che nel
2003, dopo aver salvato 130 persone venne inizialmente arrestato e la
barca sequestrata per «favoreggiamento dell'immigrazione clandestina».
Il
ricordo di Justice parte invece dalla Libia, perché lì voleva restare:
«Sono scappato dalle persecuzioni religiose e pensavo che un paese
musulmano fosse la meta giusta». Ma il comportamento della polizia
libica lo ha scioccato: «più di una volta mi hanno rubato i soldi e
perfino stracciato il permesso di soggiorno. Mi dicevano che loro ce
l'avevano dato e potevano farne quel che volevano».
Ricorda la
preparazione della partenza da Al Zuara, il percorso fino alla barca
«bendati» e poi la sorpresa di quel rottame di legno lungo pochi metri.
Senza nessuna guida:«ci hanno fatto vedere come si tiene in mano il
timone del motore, dicendo di andare 'sempre dritto'.. a quel punto non
volevamo più partire, ma siamo stati minacciati. Avevamo visto troppo».

Quanto al prezzo Justice racconta una specie di asta al contrario:
«I primi hanno pagato fino a 1200 dollari. Poi, quando rimane un po' di
spazio in barca e nessuno ha abbastanza denaro il prezzo scende. Io me
la sono cavata con 500».
Dal loro punto di vista l'Italia «è stata
la salvezza», cosa che non impedisce a Justice di far notare che però
«anche dopo il salvataggio non ci hanno mai fatto capire niente.
Nessuno ti spiega quello che sta per succedere se non un secondo prima
che accada». Come al centro di identificazione di Crotone dove tutti
sono restati almeno un mese «e poi un giorno ci hanno detto di andar
via. Ma senza nessuna indicazione».
Da allora solo cinque sono
ospiti al centro Fernandez, mentre gli altri dormono stipati in
appartamenti di connazionali o addirittura in case in costruzione.
Nessuno ha ricevuto il titolo di viaggio, un fondamentale surrogato del
passaporto.
L'ansia del futuro è perciò il sentimento comune di
questo piccolo collettivo di sopravvivenza. Una storia di fuga e di
amicizia: allo sportello rifugiati della provincia di Napoli era stato
segnalato solo l'arrivo di John, ma lui ha convocato gli altri
diciassette. Il risultato è che da martedì in nove saranno ospitati a
Venezia, mentre altrettanti dovrebbero finalmente ricevere un letto
dalle strutture di accoglienza napoletane.
Per qualche decina di
casi risolti, però, come denuncia Emiliano Di Marco, operatore del
progetto Iara, «in Campania ci sono centinaia di rifugiati che restano
senza nessuna assistenza». Quasi in mille, del resto, si sono già
riuniti in assemblea il quattro agosto al centro sociale di Caserta.
Anche loro, per l'autunno, non hanno intenzione di restare con le mani
in mano.
*mediattivista InsuTv
su questo blog vedi anche il post "La tonnara migrante"

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