Fortress Europe – Luglio

Fortress Europe, pubblicato il rapporto di
luglio
L’osservatorio sulle vittime dell’immigrazione
clandestina

fonte: Fortress Europe

migranteUn massacro. Duecentodiciassette morti in un mese,
luglio, che si conferma il peggiore del 2007: 79 annegati nel Canale di Sicilia
e almeno 98 sulle rotte per le Canarie, in Spagna; 34 morti disidratati nel
deserto del Sahara, tra Niger e Libia; 3 giovani trovati asfissiati su un
camion diretto in Germania, a Mestre; 2 morti ammazzati sotto il fuoco della
polizia di frontiera marocchina, durante un tentativo di imbarco, a El Ayun, e
una ragazza investita a Calais, in Francia, mentre fuggiva dalla polizia. Un
massacro, e una criminale ipocrisia. Quella dell’Unione europea, che con
patetici cordogli per le vittime dei naufragi, chiude gli occhi sui crimini dei
nuovi alleati nella partita contro l’immigrazione clandestina e anzi li invita
a collaborare. Respingimenti in acque internazionali, espulsioni collettive in
pieno deserto, retate notturne e arresti arbitrari, detenzioni senza processo,
abusi, torture, omicidi. A sud del Mediterraneo non si guarda tanto per il
sottile. Che fine hanno fatto i 22 dirottatori del peschereccio tunisino del 18
luglio una volta espulsi in Tunisia? E che fine faranno i 443 eritrei detenuti
da oltre un anno a Misratah, in Libia e ormai prossimi all’espulsione? E i 400
arrestati nelle ultime retate alla frontiera tra Marocco e Algeria, e poi
deportati? E che fine faranno i kurdi espulsi nella Turchia che bombarda
l’Irak? L’Europa sembra non porsi il problema.

Dall’inizio dell’anno le vittime
dell’immigrazione clandestina sono già 666. Nell’intero 2006 i morti furono
1.582. Eppure gli sbarchi sono dimezzati. Meno 55% in Spagna, con 6.306 arrivi
nei primi sei mesi del 2007. Meno 45% in Italia, dove da gennaio al 25 luglio sono
sbarcate 5.200 persone contro le 9.389 dello stesso periodo nel 2006. É un
corollario del pattugliamento in mare. Senza l’apertura di canali legali di
ingresso, la pressione migratoria non cala. Le navi militari spostano solo i
tragitti su rotte più lunghe e pericolose, e su imbarcazioni sempre più
piccole, e quindi meno sicure, per sfuggire ai radar. I dati del Ministero
degli interni italiano parlano chiaro. Nel 2005 viaggiavano in media 101
persone a bordo di ogni nave diretta in Sicilia. Nel 2006 erano 53 e nel 2007
sono 41. E i racconti di chi sbarca confermano la scomparsa della figura dello
scafista. Al timone siede a caso uno dei passeggeri. Gli organizzatori
risparmiano e i morti del Canale aumentano: già 327 nel 2007 contro i 302 di
tutto il 2006. A
poco sono serviti i pattugliamenti della missione Nautilus II di Frontex. La
missione è terminata il 27 luglio, dopo un mese di attività. Ma il direttore di
Frontex, Ilkka Laitinen assicura: da gennaio 2008 pattuglie permanenti.

Nel Sahara occidentale succede lo stesso.
Spesso le tragedie si consumano nelle prime miglia di mare. L’ultima volta è
successo la notte tra il 21 e il 22 luglio. Due imbarcazioni partite dalla
laguna di Na’ila, 150 km
a nord di El ‘Ayun e dirette alle Canarie, fanno naufragio. Un unico
superstite, aggrappato a un bidone di plastica che era a sul natante. I
dispersi sono almeno 40. Una settimana dopo vengono ripescati due corpi. Le
vittime sono tutte Saharawi, di El ‘Ayun. I loro nomi si aggiungono alla lista
nera degli almeno 1.836 morti dell’Atlantico sulle rotte per l’arcipelago
spagnolo. Quattro giorni prima, il 18 luglio, una piroga con almeno 100 persone
a bordo si era rovesciata 90
miglia a sud di Tenerife, durante le operazioni di
soccorso. Si sono salvati soltanto in 48. Il mare ha riconsegnato tre corpi. I
dispersi sono almeno 50. Almeno. Perchè ultimamente alle Canarie arrivano
piroghe con 140, 150 passeggeri a bordo. E quindi i morti potrebbero essere
anche 90. Secondo gli uomini di Salvamento Maritimo l’incidente sarebbe stato
causato dal nervosismo dei passeggeri che alzandosi in piedi per chiedere aiuto
avrebbero sbilanciato il legno. Erano nervosi perché erano in mare da dieci
giorni. Erano partiti dalla Guinea Bissau, a sud del Senegal, per evitare i
pattugliamenti Frontex, che in Senegal hanno respinto verso le coste africane
1.167 emigranti soltanto tra febbraio e aprile 2007, con alcuni episodi di
detenzione arbitraria, trattamenti degradanti e rimpatrio forzato, come quello
più noto del Marine I, finalmente risolto dopo oltre 5 mesi di detenzione dei
passeggeri. Quest’anno, a fronte di un calo del 55% degli arrivi, le vittime
dell’Atlantico sono 142 contro le 1.035 dell’intero 2006. Un segnale
appartentemente positivo, ma c’è da domandarsi di quanti naufragi non si sappia
nulla, visto che per evitare Frontex le piroghe ormai percorrono rotte di 2.000 km, solcando il mare
300 miglia
al largo dalle coste africane, lontano dai pattugliamenti sì, ma anche dai
soccorsi.

“Hellenic Watermellons Tsiausis Export”. Questa la scritta sul
camion frigorifero all’interno del quale si erano nascosti quattro giovani,
forse iracheni, tre dei quali ritrovati morti dallo stesso autista, lungo
l’autostrada A4, nei pressi di Mestre, il 14 luglio 2007. Il camion, targa
ceca, si era imbarcato in Grecia per Ancona e era diretto in Germania con un
carico di angurie. Una tragedia come tante, troppe altre. Viaggiando nascosti
nei camion sono morte almeno 277 persone negli ultimi anni, molte proprio sulla
direttrice Turchia-Grecia-Italia. Una direttrice molto trafficata soprattutto
dai profughi afgani, kurdi e iraqeni. Vengono a chiedere asilo, nella maggior
parte dei casi sono rispediti al mittente. Solo nel porto di Venezia, nei primi
cinque mesi del 2007 sono state intercettate 254 persone, tra cui 64 minori.
Quasi tutte (238) sono state respinte. 152 erano afgani, 46 iraqeni e 13
iraniani. E non va meglio nel porto di Bari, dove soltanto nella seconda metà
di luglio almeno 20 iraqeni e 4 afgani sono stati rispediti in Grecia. Che
proprio di recente è stata ammonita da un rapporto dell’Unione europea per il
trattamento riservato ai rifugiati politici.

Zerovirgolatrepercento. E’ il tasso di
riconoscimento dello status di rifugiato in Grecia nel 2004. Tre su mille.
Incredibilmente raddoppiato allo 0,6% nel 2006. 11.000 domande d’asilo non sono
ancora state esaminate. Lo dice il rapporto sulla Grecia della Commissione
Libertà e giustizia dell’Ue, che fa notare che non esistono rifugiati iraqeni
in Grecia. Strano dato che sono oltre 2 milioni in Siria e Giordania e più di
18.000 solo in Germania. Il rapporto denuncia le condizioni “abominevoli,
disumane e intollerabili” dei centri di detenzione per migranti irregolari
sull’isola di Samos. Esprime “inquietudine” per la detenzione dei minori e
condanna le espulsioni collettive in Turchia. Già nel 2001 l’associazione
tedesca Pro-Asyl e la turca Ihd, denunciavano arresti e torture dei kurdi
turchi rimpatriati dalla Germania. Oggi il rischio è ancora maggiore. Il 19
luglio un comunicato della Reuters annunciava bombardamenti turchi sul nord
dell’Iraq, vicino al confine, dove sarebbero installate le milizie del partito
indipendentista kurdo Pkk. L’esercito turco ha schierato 200.000 uomini alla
frontiera irachena. La guerra tra Ankara e Pkk ha fatto già 30.000 morti dal
1984.

Articolo 3. “Nessuno Stato espelle, respinge, né
estrada una persona verso un altro Stato qualora vi siano serie ragioni di
credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura”.
Articolo 3 della Convenzione contro la tortura dell’Onu. Ratificata da 144
Paesi. Carta straccia. Come pure il principio di non espulsione dei rifugiati
sancito dalle Nazioni Unite e dalla Convenzione sui rifugiati dell’Unione
africana. E come gli articoli 4 e 19 della Carta europea dei diritti fondamentali,
che vietano torture e trattamenti degradanti, espulsioni collettive o in Paesi
dove gli espellendi rischiano la tortura. Convenzioni tanto garantiste quanto
impotenti per l’ipocrisia di chi dovrebbe garantirne l’applicazione. Per capire
perché, basta una breve rassegna stampa dei fattacci dell’ultimo mese, che
parlano del sangue di migliaia di migranti e richiedenti asilo arrestati,
maltrattati, deportati, in alcuni casi torturati o addirittura ammazzati, in
nome del contrasto all’immigrazione clandestina via mare.

L’ammutinamento dei clandestini. Ovvero l’ennesimo
respingimento collettivo nel Canale di Sicilia, venduto dalla stampa come un
atto di pirateria. Diciotto luglio 2006. Un gommone carico di 37 persone, tra
cui 11 donne e due bambine di 6 mesi e 5 anni, chiede aiuto al peschereccio
tunisino “el-Hagg Mohammad” impegnato in una battuta di pesca, 42 miglia a sud di
Lampedusa. Il peschereccio fa salire a bordo le donne, i bambini e alcuni
uomini. E inizia a trainare il gommone, su cui rimangono 15 passeggeri, che
però tagliano la corda alla vista della motovedetta tunisina Bizerte in
avvicinamento, riprendendo la rotta per Lampedusa. I 22 a bordo allora prendono il
comando del peschereccio per timore di essere riportati in Tunisia. Due delle
donne hanno lasciato i mariti sul gommone, ormai lontano. La vicenda si risolve
all’alba dopo una notte passata in acque internazionali, tra Malta e Lampedusa,
scortati dal Bizerte. Sul posto, dice l’Ansa, si sono recate due motovedette
italiane, della Guardia costiera e della Guardia di Finanza. Ma alla fine è il
Bizerte a caricare i 22 e a riportarli nel porto di Sfax, in Tunisia. Il
gommone intanto è stato intercettato e soccorso dalla Guardia costiera e i 15
sono portati a Lampedusa, da dove saranno smistati a Crotone e in altri centri
di prima accoglienza. É un respingimento collettivo in mare. L’Acnur (Alto
commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite) chiede immediatamente a
Tunisi l’autorizzazione per incontrare il gruppo. A bordo c’erano eritrei,
sudanesi, somali ed etiopi. Tutti possibili rifugiati politici. Ma nel silenzio
più assoluto, le autorità tunisine riaccompagnano i 22 in Libia, da dove si erano
imbarcati il 15 luglio. Alcuni giorni dopo due donne eritree bussano alle porte
dell’Acnur a Tripoli, in Libia. Chiedono notizie dei mariti in Italia. Da
allora nessuno ha notizie dei 22.

Non é il primo caso di respingimento in mare.
La legge lo vieta. Nelle acque internazionali vi è libertà di navigazione. E in
caso di naufragio il diritto del mare impone di riaccompagnare i naufraghi nel
porto più sicuro, che non necessariamente è il più vicino. A maggior ragione se
si tratta di potenziali rifugiati politici consegnati a Paesi noti per la
pratica della tortura e dei rimpatri forzati. Ma ogni estate si ripete la
stessa storia. Tareke, eritreo, nel luglio 2005 viena respinto in Libia da una
motovedetta della marina maltese, insieme agli oltre 200 passeggeri della nave
su cui era partito da Zuwarah. Ayman, tunisino, giugno 2006, stessa storia per lui
e gli oltre 200 harrag sulla Tulaitila. Abraham, eritreo, luglio 2005, la barca
fa acqua, gli operai di una piattaforma petrolifera soccorrono donne e bambini
e li riportano in Libia. Gli uomini, abbandonati a se stessi, sono soccorsi
dalla Guardia costiera italiana dopo giorni alla deriva. Il Canale di Sicilia è
un far west. E i 22 espulsi dalla Tunisia rischiano di fare la fine degli
eritrei a Misratah.

Pericolo Libia. E’ passato più di un
anno dai primi arresti. Oggi a Misratah, 200 km a est di Tripoli, sono detenuti almeno
443 eritrei, in condizioni allarmanti e a rischio espulsione. Tra loro anche 60
donne, di cui una incinta all’ottavo mese; e 7 bambini, il più piccolo di soli
tre mesi, nato in carcere ad aprile. Sono disertori dell’esercito eritreo,
scappati dal fronte sul confine con l’Etiopia. Venivano a chiedere asilo
politico in Europa. Per farlo non ci sono altre strade se non la fuga nel
deserto e la via del mare. Arrestati in mare dalla Guardia costiera libica, o
durante le retate a Tripoli, rischiano da un giorno all’altro di essere
rispediti in Eritrea. L’Eritrea avrebbe stretto in accordo con la Libia in tal senso, anche se
la notizia non è confermata. Mentre anche più a sud, in Sudan, un carico di 500
eritrei arrestati casa per casa a Khartoum, è pronto per essere spedito ad
Asmara. Tra i detenuti di Misratah, 114 sono già stati riconosciuti rifugiati
dalle missioni Acnur in Sudan e in Etiopia. L’Acnur ha avuto accesso al centro
di detenzione per intervistare le donne e i bambini per un eventuale
trasferimento come rifugiate in Europa o Nord America. Ma per gli uomini non ci
sono chance. Saranno espulsi, contro ogni Convenzione internazionale. E anche
questa volta la Comunità
internazionale resterà a guardare.

La Libia ha già deportato eritrei, nel 2006 e prima
ancora nel 2004, a
più riprese, anche su un volo pagato dall’Italia. Il 27 agosto 2004 uno degli
aerei venne dirottato dai deportati eritrei a Khartoum, in Sudan. 60 dei 75
passeggeri vennero riconosciuti rifugiati politici dall’Alto commissariato per
i rifugiati delle Nazioni Unite. In patria avrebbero fatto la fine dei 223
deportati da Malta tra settembre e ottobre del 2002. Tornati in Eritrea, furono
detenuti e torturati. Lo hanno testimoniato ad Amnesty International i pochi
riusciti a evadere, oggi rifugiati politici nel Nord America e nei Paesi
scandinavi. Trattenuti prima nella prigione di Adi Abeito e poi, in seguito a
un tentativo di fuga, nel carcere di massima sicurezza di Dahlak Kebir, alcuni
sono stati uccisi.

Solo a giugno, in Libia sono stati arrestati
1.500 migranti irregolari. A maggio erano stati 2.137. Cifre mostrate dal
governo di Tripoli per giustificare i propri sforzi nel contrasto
all’immigrazione clandestina via mare, che in realtà celano un sistema di
connivenza tra le autorità e le mafie che organizzano i viaggi con profitti di
decine di milioni di euro all’anno. Nessuno degli intervistati da Fortress
Europe è mai stato interrogato in Libia, dopo l’arresto. Al contrario, la
maggior parte sono usciti corrompendo gli agenti dei centri di detenzione e
spesso comprando dagli stessi i biglietti per la seconda traversata. Nel 2006
Human rights watch e Afvic hanno accusato Tripoli di arresti arbitrari,
deportazioni collettive e torture nei centri di detenzione per stranieri.
Simili denunce comparivano nel rapporto del 2004 della Missione tecnica in
Libia dell’Unione europea, secondo cui l’Italia avrebbe finanziato tre di quei
centri tra il 2003 e il 2005.

I testimoni. E., camerunese, è sbarcato a Lampedusa
alla fine di giugno del 2007.
A Fortress Europe ha dichiarato di aver visto con i
propri occhi 2 nigeriani ammazzati e altri 4 feriti sotto il fuoco degli agenti
della polizia libica nel carcere di Fellah a Tripoli, durante una rivolta
esplosa nel giugno 2006, capeggiata dai migranti nigeriani e risolta col piombo
delle forze dell’ordine. T., nigeriano, sbarcato a luglio 2007, ha invece dichiarato
a Fortress Europe di aver perso due amici, un nigeriano e un ghanese, pestati a
morte in un commissariato a Tripoli nel febbraio 2007. F., invece, ghanese,
anche lui appena sbarcato, a inizio giugno si trovava al confine tra Niger e
Libia, vicino al posto frontaliero di Toumou. Attraversava il deserto, su un
camion di contrabbandieri diretto in Libia. Ha contato con i suoi occhi i corpi
senza vita, seccati sotto il sole, di ben 34 persone. In mezzo alle dune,
nessuna traccia della macchina. F. non esclude che si trattasse di deportati
dalla Libia. Succede ogni mese, sull’asse Tripoli-Sebha-Gatrun-Toumou. Anche E.
è stato espulso, lo scorso settembre. A Toumou sono bloccati almeno in 150,
dice, tanti impazziscono. Gli altri raggiungono a piedi Dirkou, in Niger, in
due o tre giorni di marcia. Non tutti ce la fanno. Lo stesso E. ha seppellito
sotto la sabbia due dei 35 compagni con cui era stato abbandonato a Toumou. É
questa la Libia
a cui l’Europa propone nuovi mezzi per il controllo delle frontiere marine e
terrestri, tra le righe del memorandum firmato il 23 luglio 2007, dopo il caso
delle infermiere bulgare.

É la politica dei nuovi gendarmi. Con il Marocco ha
funzionato. Salvo gli effetti collaterali. Come i due morti ammazzati la notte
del 30 luglio, sotto il fuoco dell’Armée Royale, lungo le coste di el-‘Ayun.
Erano in 37 sub-sahariani, si stavano imbarcando per le Canarie. Al chi va là
non ha risposto nessuno. Un agente ha sparato. Diversi colpi. Oltre ai due
morti altri due uomini sono ricoverati nell’ospedale della capitale del Sahara.
Quattro giorni prima, la notte del 26 e del 27 luglio; tra 200 e 350 migranti
sub-sahariani venivano arrestati durante una retata nel campus universitario di
Oujda, lungo la frontiera Marocco-Algeria, dove da anni i deportati trovano
rifugio prima di ripartire a piedi verso Rabat, Fez, Nador, Tanger e Tetouan.
Il campus – dicono i responsabili delle associazioni Beni Znassen e Gadem – é
stato passato al setaccio, e l’accampamento dato alle fiamme. I migranti
arrestati sono stati espulsi all’altezza di Galla. Una settimana dopo nessuno è
tornato al campus. Né ci tornerà. Si trovano bloccati sulle montagne della
frontiera. Ci sono dei feriti. Mancano vestiti, coperte, cibo. Le associazioni
locali marocchine, con l’aiuto di Medici senza frontiere, stanno facendo il
possibile ma la situazione rimane drammatica. Ci sono anche almeno 6 donne e 2
bambini, uno di 4 anni.

Per questo mese è tutto. Anche se al bollettino
di guerra dei primi sette mesi del 2007 andrebbero aggiunti i 367 morti e i 118
dispersi del golfo di Aden, in fuga dalla Somalia in guerra verso lo Yemen e le
120 vittime del confine Messico-Usa, dove è ripresa, a San Diego (California),
la costruzione del muro d’acciaio di 5 metri che sigillerà entro il 2008 ben 595 dei
1.126 km
di frontiera tra i due Paesi.

fonte: Fortress Europe

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