Calcio paradiso promesso

Il calcio, paradiso promesso e negato
L’ industria del football e i suoi centri di formazione

Un interessante articolo del giornalista Johann Harscoe, pubblicato circa un anno fa da "Le monde diplomatique"


Africans playersLe coppe del mondo di calcio costituiscono l'occasione, per i promotori di questo sport, di celebrarne le virtù sociali. Ma questo elogio (eccessivo) diventa ingannevole quando il football, già fagocitato dagli interessi commerciali, si trasforma in sogno di facile successo. Infatti, la grande maggioranza dei giovani, spesso presi in Africa dai centri di formazione europei, si ritrova sul lastrico.

 
Parlando di football, la Francia alla fine degli anni '80 non aveva vinto tre Coppe del mondo come la Germania, non contava club miliardari come il Real Madrid o il Fc Barcellona – recente vincitore della Coppa dei campioni – , il livello della sua «serie A» è ancora mediocre rispetto a quello del calcio italiano, e la città di Parigi fa una ben magra figura rispetto alla decina di squadre di alto livello che giocano a Londra. Insomma, è un paese in netto ritardo.
E tuttavia, proprio la Francia è stata all'origine della creazione della Coppa del mondo (Jules Rimet), della Coppa Europa per squadre di club (Gabriel Hanot), del Campionato europeo delle nazioni (Henri Delaunay) e del Pallone d'oro, il premio individuale più prestigioso (assegnato dal periodico France Football). Ad eccezione dell'Euro 84, che organizzava, la Francia aveva creato tutto ma non ancora vinto nulla. Neppure la passione del suo popolo, né il riconoscimento degli altri paesi che contano nello sport più popolare del mondo.
Alcuni industriali francesi calcolarono allora i vantaggi possibili, e decisero di iscrivere il loro nome nella storia del football. Bernard Tapie e Jean-Luc Lagardère investirono somme cospicue nell'Olympique Marsiglia (Om), il Matra Racing (500 milioni di franchi, pari a 72 milioni di euro, tra il 1987 e il 1989). Canal+, che spende 260 milioni di euro nell'arco di 15 anni nel Paris-Saint-Germain (Psg) comincia a valorizzare la serie A (trasmettendo le partite in televisione), prima di finanziarla (acquistandone i diritti), come ha fatto per il cinema. La Francia si candida per l'organizzazione dei Mondiali del 1998 e promette un grande stadio; sorge un centro tecnico nazionale; la direzione tecnica nazionale nel 1991 lancia un centro di preformazione, l'Istituto nazionale del football (Inf) di Clairefontaine, primo nel suo genere, aperto agli apprendisti calciatori fin dai dodici anni. Questo modello sarà imitato da numerose squadre francesi e poi da quelle straniere, dopo la vittoria dei Bleus (la squadra francese) ai mondiali del 1998.
All'improvviso, c'è un deciso cambio di velocità per le giovani promesse del pallone, per i talent-scouts venuti da ogni paese che tutti i sabati e le domeniche setacciano gli stadi di paese e per i club di professionisti che rivenderanno a prezzi molto maggiorati giocatori che inizialmente sono costati ben poco.
Frédéric ha la relativa fortuna di essere nato ad appena un'ora di distanza da Parigi, in una famiglia media e unita, all'interno di un villaggio in cui sono sempre vissuti i suoi nonni e i suoi bisnonni.
Suo padre ha conosciuto l'epopea dei «Verdi» del Saint-Etienne degli anni '70 e ci ha tenuto a mettere un pallone nella culla del figlio.
Allorché Michel Platini abbandona il calcio, all'apogeo della sua arte, Frédéric non ha ancora 10 anni. Ma i suoi genitori credono di conoscere già un possibile successore del campione…
Un mercoledì, Frédéric, che è stato già scoperto da un talent scout e ha fatto parte della selezione provinciale degli Yvelines, è chiamato al telefono e risponde a una segretaria del Psg che lo invita a presentarsi a uno stage. Alle elementari e poi alle medie, è una star invidiata da tutti, cui non si rifiuta nulla. Incarna i sogni dei ragazzi e delle ragazze, è l'immagine stessa del successo. Sui campi di gioco, gli capita di dribblare uno a uno tutti i giocatori della squadra avversaria prima di accompagnare il pallone in rete.
Gli si predice un futuro dorato a tal punto che da brillante alunno delle elementari che era si disinteressa a poco a poco dello studio per concentrare sempre di più i suoi sogni sulla carriera sportiva, per perfezionarsi in questo gioco di cui è già il re, e che gli permetterà fra qualche anno – è la sua speranza – di sgommare al volante di una Porsche. Così Frédéric spicca il volo, entro i limiti che gli consentono il piccolo schermo, le ambizioni del padre, la voracità dei talent-scouts, la follia di grandezza di questo microcosmo: «La mia infanzia è trascorsa così, senza una nube, con la testa piena di certezze e un futuro assicurato. La mia passione sarebbe stata il mio lavoro, nessuno ne dubitava, soprattutto non ne dubitavo io che, senza saperlo, avevo perso ogni contatto con la realtà».
La caduta sarà lenta. A 13 anni, Frédéric va al centro sport-studi di Poissy, filiale del Sochaux, un solido punto di riferimento. Brevilineo, fino ad allora era sempre riuscito a compensare questo difetto con una tecnica fuori del comune. Ma adesso, gli dicono, deve acquisire tutti i «fondamentali» che gli consentiranno di diventare un professionista.
Questo primo anno di convitto, a un'ora da casa, sarà anche l'ultimo.
Privo dei suoi punti di riferimento, stenta ad innalzarsi al livello dei suoi compagni di squadra, forti almeno quanto lui, e crolla per quanto riguarda il rendimento scolastico. Fuso e confuso nel collettivo, non esiste più. «Un incubo – spiega. Prima io ero il football, ero la felicità, il successo, il futuro. Nel bel mezzo della mia adolescenza mi sono accorto che non ero più niente». Ma non agli occhi degli altri, però. Genitori, amici dei genitori, professori, compagni non smetteranno mai di chiedergli a che punto è la sua carriera. Per anni e anni, continuerà a far finta di crederci, prima della rinunzia totale.
Frédéric adesso ha 25 anni. Fa il muratore, fuma spinelli a tutte le ore del giorno, trascorre il week end chiuso in casa, non guarda più una partita. Non ha mai ritrovato il potere che era stato investito in lui fin dalla più tenera età. «La gente mi vede innanzitutto come quello che non ha fatto carriera. Leggo nei loroi occhi la commiserazione, oppure la soddisfazione di non avermi visto arrivare al successo.
Mi trascino quell'infanzia dorata come una palla di ferro al piede».
Un caso isolato? Tutt'altro. Non c'è villaggio, squadra, scuola che non abbia la sua star del pallone e che non figuri nell'agenda di un talent scout. Perché la caccia ai giovani talenti non conosce tregua. Il sistema di formazione francese è un meccanismo i cui ingranaggi raggiungono senza intoppi i circa due milioni duecentomila tesserati, iscritti nelle squadre dilettanti. I buoni affari si fanno nelle categorie più giovani (dai 10 ai 14 anni). Dopo, dai 15 anni in su, i giocatori che non sono stati scoperti finiscono rapidamente nel dimenticatoio.
La caccia al campione comincerà dalla culla?
Questa rete capillare, prima provinciale e poi regionale, consente alle squadre professioniste di disporre di risorse praticamente illimitate: con la loro maglia, con una media di circa 500 dilettanti sotto i 18 anni sotto contratto, e soprattutto nelle squadre passerella della regione o dell'area geografica.
Il caso del Paris Saint-Germain, che non ha mai puntato decisamente sul vivaio, è motivo di riflessione. Vi si fanno le ossa circa ottanta giocatori tra i 12 e i 18 anni, in un centro sport-studi che bada più allo sport che alla scuola. Se cinque di loro un giorno entreranno in prima squadra, sarà un bel successo. Se uno giocherà nella nazionale francese, sarà un evento storico… Di certo, il club-faro della regione parigina nel 2003 registrava il tasso di passaggio al professionismo più basso di tutta la Francia (il 2,43%). Ma, a ben guardare, la media nazionale è inferiore al 10%. Orbene, entrare in un centro di formazione rappresenta già una bella impresa. Anche lì la selezione è assai dura perché negli innumerevoli stage di perfezionamento creati da una ventina di anni a questa parte, viene promosso meno di uno stagista su cento.
All'Inf di Clairefontaine, regno della preformazione, ogni anno tentano la fortuna quasi mille bambini di dodici anni. Alla fine, ci sarà una ventina di eletti. Allora, per tre anni i ragazzini saranno a convitto nel centro tecnico nazionale, luogo di villeggiatura della nazionale francese. Alcuni sono rimandati a casa, definitivamente, alla fine di ognuna delle prime due stagioni. Non si tratta di problemi di comportamento o di scarso rendimento scolastico. È semplicemente che nel football il ragazzo non funziona. Alla fine dello stage di preformazione, e poi della formazione in una squadra professionista, soltanto quattro o cinque di questi elementi superdotati passano al professionismo. E ben di rado per giocare nelle squadre di primo piano.
Sarebbe ingiusto non riconoscere che il sistema di formazione francese funziona a meraviglia, dato che la grande maggioranza dei professionisti di serie A e B (1) è passata da questa tappa obbligata, e i successi ai mondiali e agli europei della nazionale francese, rispettivamente nel 1998 e nel 2000, ne sono un'ulteriore conferma.
Ciononostante, una percentuale estremamente elevata di insuccesso penalizza i bambini e gli adolescenti poco o mal preparati a una «riconversione». Spesso prendono coscienza dell'importanza dello studio soltanto quando è troppo tardi. Le condizioni di alloggio, in convitti rumorosi ed essenzialmente maschili, dove non si vede mai di buon occhio chi vive in disparte dal collettivo, anche per fare i compiti, il pensiero fisso del football, l'allontanamento dai familiari e anche gli orari di allenamento piuttosto vincolanti, rendono il successo scolastico quasi difficile quanto il successo nel pallone.
All'Inf nel cruciale secondo anno, quasi due alunni su tre sono bocciati o vengono riorientati verso un brevetto di studi professionali (Bep) o un certificato di attitudine professionale (Cap). Per quanto riguarda il football, gli allievi sono stati avvertiti qualche anno fa dal direttore del centro: «Avete visto tutti che c'è un elenco affisso all'ingresso, su cui figurano tutti i professionisti che sono passati di qui. Sono esattamente ventisei. Su un centinaio di ex convittori dell'Inf, questo rappresenta una percentuale del 25% di successi, il che significa anche che circa il 75% di voi dovrà guadagnarsi la vita facendo qualcos'altro che non tirando calci a un pallone (2)». Tuttavia, nella quasi totalità delle squadre professioniste, una tendenza all'autosoddisfazione, abbinata alla necessità di sedurre i genitori dei giovani giocatori, maschera l'impossibilità di portare avanti di pari passo lunghi studi e la (aleatoria) carriera di calciatore.
Tutte le squadre di serie A e B e la Nazionale hanno il loro centro di formazione, a volte ufficiale come quello dell'Auxerre, a volte semplicemente ufficioso come quelli di Digione, Pau o Tolone. In totale, sono almeno cinquemila i giocatori superdotati fra i 12 e i 18 anni che ogni giorno calzano gli scarpini per «imparare il mestiere», sognando di entrare in prima squadra e di guadagnarsi la vita sui campi da gioco… quando il football francese conta appena un migliaio di professionisti fra i 18 e i 35 anni.
Il miraggio non risparmia neppure il meglio del meglio. Il Sochaux, «scuola d'eccellenza» allo stesso livello del Nantes o dell'Auxerre, ha utilizzato cinque giocatori provenienti dal suo centro di formazione sui venticinque con il maggior numero di presenze in questa stagione in serie A. Cinque giocatori titolari in media una partita su due e che quindi dovranno lottare per far carriera. Il messaggio di benvenuto presentato dal club di Sochaux sul suo sito internet, dove si vanta di organizzare la sua formazione in cinque settori – «scoperta», «formazione», «maturazione», «impiego-riconversione» – , lascia quindi perplessi, quando segnala che attualmente una «scuola di football» è aperta ai bambini tra i 6 e i 12 anni. La caccia al campione comincerà con i bambini ancora in fasce?
I club hanno comunque capito che era loro interesse allevare nelle proprie scuderie il maggior numero possibile di cavalli di razza.
I formatori si trovano in buona posizione per sapere che un ragazzo che ha un eccellente controllo di palla a 15 anni non garantirà necessariamente un alto rendimento cinque anni dopo. Non sempre la testa e i muscoli procedono in sintonia. Numerosi talenti precoci perdono la loro freschezza nel momento stesso in cui comprendono che la loro passione non è più un gioco. Rudy Haddad, Mourad Meghni, Jérémie Aliadière, Philippe Christanval e tante altre «future stelle» non hanno dimostrato neppure un quarto di un terzo di quello che ci si aspettava da loro, probabilmente proprio perché hanno preso coscienza che il loro nome, il loro gioco, la loro carriera erano manipolati, sfruttati, che non gli appartenevano più, ancor prima del passaggio tra i professionisti (3).
Anche gli «internazionali» delle nazionali giovanili di Francia di 15, 16, 17 anni faticano a conquistarsi un posto al sole, una volta entrati nella maggiore età. Soltanto un terzo entra tra i professionisti qualche anno dopo aver cantato l'inno nazionale. Si torna spesso alla storia di un'infanzia, di un'adolescenza, di una vita dedicate a un gioco che si trasforma ben presto in mestiere (nella maggior parte dei casi non retribuito), un talento individuale che annega nella massa, un'ammirazione infantile che si trasforma in pressione dei familiari, un futuro assicurato che diventa un appuntamento mancato.
La delusione può trasformarsi in tragedia. Una tragedia che riguarda le migliaia di giovani africani che, ipnotizzati dalla televisione, ogni anno vengono a tentare la fortuna in Europa, con una preferenza molto spiccata per la Francia e il Belgio, teste di ponte della tratta sportiva. Anche lì, guai a chi non supera la soglia dell'ingresso nel professionismo. In Africa non c'è alcun bisogno di formazione per permettere a centinaia di migliaia di bambini e di adolescenti di sviluppare un talento particolare… e di sognare una luminosa carriera (4).
Le grandi imprese di George Weah e Roger Milla ieri, di El-Hadji Diouf, Mamadou Niang e Didier Drogba oggi, i contratti pubblicitari degli scarpini Puma, le promesse dei talent-scouts che percorrono il continente in lungo e in largo per trovare, senza realmente cercarla, la perla rara, bastano ad abbagliare intere famiglie. Esse accettano senza batter ciglio di finanziare – sborsando anche 3.000 o 4.000 euro – il costoso biglietto aereo per il loro bambino prodigio.
Venuti da ogni dove e da nessuna parte, numerosi giovani africani vedono le loro speranze infrangersi sugli scogli della formazione francese. Presidente dell'associazione Culture Foot Solidaire, Jean-Claude Mbvoumin segue da vicino le vicende di centinaia di immigrati, giunti soprattutto dal continente nero per guadagnarsi la vita giocando a pallone e che, la maggior parte delle volte, si ritrovano sul lastrico, senza documenti, distrutti. «Gli africani hanno un'enorme quantità di preconcetti sul football professionista in Europa – spiega. Vedono numerosi compatrioti avere successo, e si immaginano che sia molto facile imitarli. Pensano di aver superato il maggior ostacolo quando sono riusciti a mettere insieme i soldi per il viaggio e hanno ottenuto il visto di soggiorno, e si sentono investiti di una missione rispetto alle loro famiglie. Per paura e per vergogna, non vogliono tornare nel loro paese dopo essere stati scartati».
L'associazione Culture Foot Solidaire ha calcolato che ci sono oltre seicento giocatori africani attualmente senza contratto. Nella realtà, sono molti di più. «La Federazione del Camerun da sola – precisa Mbvoumin – lo scorso anno ha consegnato ottocentocinquanta documenti di espatrio. A questa cifra bisogna aggiungere i giocatori che non sono in organico nei club e che sono scoperti e gestiti direttamente dai talent-scouts». Senza dimenticare poi i giocatori del Mali, del Senegal, della Costa d'avorio, della Nigeria, della Guinea…
La Francia, che funge da trampolino di lancio verso i grandi campionati spagnolo, italiano e inglese, «capta almeno la metà», di questi nuovi arrivi e non fa certo la schizzinosa. «I club – prosegue Mbvoumin – non hanno alcun motivo di rimettere in discussione un sistema che per loro è così redditizio.» In occasione dell'ultima Coppa d'Africa delle nazioni (Can), non meno di settantuno giocatori nazionali africani hanno interrotto la loro partecipazione ai campionati francesi di serie A e B per difendere i colori del proprio paese, a volte per un mese intero.
Il Sant-Etienne, che conta dieci africani in organico, ha dovuto lasciarne partire ben sei. I giovani giocatori venuti dal continente nero sono talmente importanti per il buon rendimento delle squadre francesi, che il loro spirito patriottico è stato visto con occhio molto critico dagli allenatori interessati. Sepp Blatter, presidente della Fifa, ha dovuto addirittura intervenire e chiedere «più rispetto nei confronti dei calciatori africani».
Vittime consenzienti Certo, la Fifa nel 2001 ha regolamentato i trasferimenti internazionali, vietando esplicitamente la compravendita dei minori. Ma, fatta la legge trovato l'inganno. Innanzitutto attraverso il «traffico dell'anagrafe»: gli agenti specializzati, spesso non accreditati presso la Fifa, invecchiano di due o tre anni i minori per effettuare il loro trasferimento in piena legalità. In un secondo tempo, non esitano a compiere l'operazione inversa: un giocatore di 22-23 anni, che passa per una promessa diciottenne, avrà un valore maggiore visto che la sua carriera prevista, (la durata del suo ammortamento) sarà più lunga (5). Infine, capita che gli agenti modifichino l'identità del giocatore (con il suo consenso) per non dover versare soldi al club formatore al momento di un trasferimento.
In Francia, i pubblici poteri hanno esaminato la questione già nel gennaio del 2000, allorché era ministro dello sport Marie-George Buffet. Tuttavia, nessuna inchiesta approfondita ha permesso di valutare l'ampiezza di questa forma di «immigrazione selettiva» che spesso si trasforma in soggiorno illegale.
A ben guardare, i rimedi sono limitati, stante che il football è diventato un'attività economica in tutto e per tutto, in cui la compravendita dei giocatori costituisce una delle fonti di arricchimento principali.
Ebbene, i giocatori africani, poco informati, con un'identità facilmente falsificabile, e la cui formazione non costa nulla perché hanno imparato a giocare… proprio giocando (a differenza degli adolescenti francesi, cresciuti in batteria, che alla fin fine disputano pochissime partite «tradizionali») rappresentano un valore sicuro. Robusti, dotati di una tecnica eccellente completamente finalizzata al gioco – come i calciatori sudamericani, che perfezionano anch'essi il loro tocco di palla giocando per strada o sulla spiaggia – , sono un plusvalore garantito, sia per i talent-scouts che per i club che li acquistano.
Crocevia dell'Europa per tutti i calciatori che vogliono giocare nelle squadre più prestigiose, la Francia mette a profitto la sua politica di formazione, rimanendo l'unico paese del Vecchio Continente che non sia indebitato. La sua bilancia commerciale (basata sulla compravendita dei giocatori) nel 2005 esibiva un saldo attivo di 12 milioni di euro (6). L'efficacia del suo sistema di formazione non le impedisce peraltro di dover far venire dall'estero dei referenti o «fratelli maggiori»per allenare i più giovani.
L'identità di gioco, l'identità tout court delle diverse formazioni professioniste tende a scomparire, soprattutto dopo il famoso decreto Bosman (1995) della Corte europea di giustizia e i decreti successivi, che hanno consentito alle squadre di club di schierare in formazione tutti i giocatori stranieri che desideravano. E così in Belgio è successo che la squadra di Beveren scendesse in campo con undici stranieri, di cui dieci ivoriani. E così, i tifosi non si identificano più come in passato con i giocatori che difendono i loro colori.
Inoltre, la crescente commercializzazione dei calciatori, sempre più considerati oggetti senz'anima, li trasforma in strumenti di marketing (7).
Se l'immagine che offrono di se stessi, in interviste particolarmente vacue e quella che il microcosmo rimanda loro, trattandoli come uomini sandwich, non creano particolari difficoltà quando sono ancora abbastanza giovani da commercializzare le loro gambe (i venti giocatori più richiesti dagli sponsor pubblicitari intascano in media 3 milioni all'anno per rappresentare i vari marchi), una volta che hanno attaccato gli scarpini al chiodo, la loro vita è tutta in salita. La scoperta dell'anonimato, il passaggio dal tempo presente al passato prossimo (autoglorificazione cieca o perpetui rimpianti, e comunque nostalgia), l'apprendimento di un nuovo mestiere, di un nuovo modo di vita, e la constatazione di esser stati ammirati, costruiti soltanto in funzione del loro fisico, sono altrettanti elementi che inducono a un umore tetro, nel momento in cui i calciatori in pensione valutano appieno l'entità del condizionamento di cui sono stati le vittime consenzienti.
Tutti i calciatori vorrebbero conquistare il successo con la «faccia simpatica» di David Ginola, il carisma di Michel Platini, il «piede magico» di Zinédine Zidane o il gusto per lo scontro fisico di Eric Cantona. Ma, per la maggior parte di loro, la carriera da professionista dura dai cinque ai sei anni. E i giocatori passano per troppe squadre per conservarvi legami solidi, che tornino loro utili una volta usciti di scena. La competenza e il talento non sono gli unici criteri determinanti della selezione. Come spiegare altrimenti il fatto che, ormai da anni, la quotazione di Nicolas Anelka rimane così elevata, quando non segna certo più goal di un attaccante di medio livello della serie A francese?
In meno di vent'anni, il football ha subito una totale metamorfosi, perdendo il suo status di sport popolare per assumere quello di settore economico. All'inizio del 2006, la società Orange ha stipulato un contratto di 29 milioni di euro all'anno per tre anni, alla scadenza del quale questa filiale di France Telecom potrà usufruire dei diritti di trasmissione delle partite di serie A su telefono mobile, e avrà il suo nome abbinato a quello della Serie A. (8) Ben pagati per i pochi anni durante i quali possono sfoggiare il proprio talento (45.000 euro lordi al mese per giocatore di serie A, circa 15.000 in serie B, formate entrambe in Francia da venti squadre di circa venti giocatori professionisti), i calciatori stanno sulla cresta di un'onda che potrebbe appiattirsi quasi con la stessa rapidità con cui si è formata. L'equilibrio finanziario di questo sport si basa infatti in larga misura sui diritti televisivi sempre più elevati, arrivati attualmente a livelli astronomici (600 milioni di euro all'anno per le partite di serie A in Francia).
La fusione tra Tps e Canal+ dovrebbe ridurre notevolmente l'entità del prossimo contratto, che verrà stipulato fra due anni. E soprattutto, la trasmissione gratuita delle partite su Internet potrebbe azzerare completamente i diritti. Già adesso, la Coppa del mondo e la Coppa Uefa sono trasmesse sul web attraverso le reti cinesi. I giovani calciatori attualmente in formazione avranno ancora, non c'è da dubitarne, i mezzi per vivere bene, per il breve tempo che durerà la loro carriera.
Ma l'escalation permanente delle retribuzioni verosimilmente sta per finire. Il che non impedirà a decine di migliaia di adolescenti di tentare comunque la fortuna, quando verrà il loro turno.


(1) Nel 2001 l'ex prima divisione (la nostra serie A) ha cambiato nome in Ligue 1 (L1) nel 2001.

(2) Cfr. «Les vertes années de Clairefontaine», France Football, Parigi, 19 giugno 2001. Si legga anche « La tête et les jambes», France Football, Parigi, 2 maggio 2000.

(3) Si legga Jean-Louis Pierrat e Joel Riveslange, L'Argent secret du foot, Plan, Parigi, 2002.

(4) Si legga Raffaele Poli, «De Cape Town à Amsterdam, les réseaux de recrutement des joueurs africains», università di Neuchatel, 2004.

(5) Si legga Habibou Bangré, «Le trafic d'âge dans le foot», 26 maggio 2004, www.afrik. com.

(6) Si legga il rapporto annuale della Direzione nazionale controllo e gestione (Dncg), 2004-2005, www.lfp.fr.

(7) Si legga Jean-Marie Brohm, «La legge della giungla, stadio supremo dello sport», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2000.

(8) «Ligue 1 Orange» è la dicitura concordata. Ligue 1 corrisponde alla Serie A italiana, (ndt.) (Traduzione di R. I.)

 

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