vedi
anche: Le "speranze di
amore" di Frei Betto. Cuba, speranza socialista
E l’ isola
è già nel suo futuro
di Gianni Minà, Fonte Latinoamerica (20 febbraio 2008)
Non mi ha sorpreso l’annuncio di Fidel Castro sul suo
ritiro dalla politica. E non perché il leader cubano non abbia recuperato un
discreto stato fisico per un uomo 81enne operato d’urgenza venti mesi fa di
diverticolite. Fidel è un uomo coerente con se stesso e sa che il suo popolo,
nel bene e nel male, lo ha sempre vissuto come il padre che risolve tutti i
problemi, specie quelli più complicati. Anche chi non lo ha approvato o non lo
ha amato, ha sempre pensato, infatti, con gratitudine, che alla fine tutto si
sarebbe risolto, perché ci avrebbe pensato Fidel. Questa è stata la forza e la
debolezza della Revolución, ma proprio per questo il Comandante ha sempre
saputo che doveva preparare il popolo e il mondo ad una sua eventuale
dipartita, in modo che non nuocesse all’equilibrio della rivoluzione.
Non a caso, nel messaggio di ieri ai compatrioti, segnala
che si è sempre preoccupato, quando parlava, in questi venti mesi di
convalescenza, della sua salute, di evitare illusioni che nel caso di un
distacco repentino avrebbero potuto avere un impatto traumatico per il suo popolo,
nel mezzo della battaglia che la politica di Cuba rappresenta, "Dovevo
prepararlo alla mia assenza, psicologica e politica. Era il mio obbligo
primario dopo tanti anni di lotta". Per questo non ha mai trascurato di
segnalare che, nel suo caso, si trattava di un recupero fisico "non esente
da rischi".
Il destino lo ha aiutato a farlo, regalandogli una lunga
convalescenza di venti mesi, nella quale Cuba ha vissuto la sua famosa
transizione (traghettata non solo da Raul Castro, ma anche dai ministri chiave
dell’Economia, degli Esteri, della Salute pubblica e dell’Energia) senza
sussulti e senza tensioni, come avrebbero sperato in Florida o in New Jersey.
O, magari, in quelle squallide riunioni in Germania o in Repubblica Ceca dove,
come è successo la scorsa estate, con la regia e i soldi del Dipartimento di
Stato Usa, si mettono a punto ancora presunti piani per destabilizzare Cuba o
farla vivere imprigionata perennemente in una strategia della tensione.
E così ora, come avevano detto coloro che guardano alla
rivoluzione più laicamente e non facendosi accecare né dal pregiudizio, né dal
favore, Cuba è già nel suo futuro, in uno scenario, tra l’altro, molto più
favorevole di quanto solo dieci anni fa avrebbe potuto sperare.
Allora l’isola, costretta a sopravvivere dopo la fine dei
rapporti economici privilegiati con le nazioni dell’ex impero sovietico,
rischiò veramente il tracollo trovando poca solidarietà anche nel continente
sudamericano, incapace, allora, di ribellarsi all’antistorico embargo decretato
mezzo secolo fa dal governo degli Stati uniti verso quello dell’Avana.
Ora il vento che soffia nel continente è di progresso e di
indipendenza. Otto nazioni latinoamericane, pur con diversa intensità e
convinzione, hanno scelto governi con programmi sociali evidenti, il Brasile di
Lula, l’Argentina dei Kirchner, l’Uruguay di Tabaré Vázquez, il Venezuela di
Chávez, l’Ecuador e la Bolivia
degli indigeni Rafael Correa ed Evo Morales, il Nicaragua di Daniel Ortega e,
pur con i suoi limiti evidenti, anche il Cile della concertazione di Michelle
Bachelet, donna presidente in un paese machista e militarista.
Tutti i leader di questi paesi, con più insistenza o con
più pudore, hanno in tempi recenti riconosciuto i meriti dell’esempio e della
lunga resistenza di Cuba nella possibilità di cambiamento sociale e politico
che si è aperta nelle terre a sud del Texas, senza contare gli aiuti economici
sostanziosi che i rapporti con paesi come il Venezuela e il Brasile hanno
apportato all’economia di Cuba che ha ora un pil del 9%, grazie anche agli
accordi con la Cina
che compra tutto il nickel estratto nell’isola a prezzi di mercato e non
artatamente ribassati, come l’Occidente, trenta anni fa, su insistenza degli
Stati uniti, faceva per lo zucchero.
Si può dire, insomma, che non solo Che Guevara non era un
visionario quando sognava la liberazione del continente, ma che anche Fidel
Castro, pur frenato dal fallimento dell’applicazione pratica del marxismo e dai
guasti patiti dalla società cubana nell’epoca della dipendenza dall’impero
sovietico, sia riuscito a consegnare alla storia, dopo 50 anni, un paese ancora
non esente da errori, ma sicuramente più attento ai diritti e alle esigenze dei
cittadini, rispetto a quello che la sua rivoluzione liberò dalla corruzione del
regime di Fulgencio Batista e dei mafiosi come Vito Genovese, Frank Costello e
Lucky Luciano, che condizionavano la vita dell’isola.
Non solo, un paese che ha risolto molti dei problemi
basici, di vita, che quasi tutte le nazioni latinoamericane, ostaggio dell’economia
neoliberale, non si sognano ancora di attenuare o cancellare.
Lunedì il governo cubano ha liberato sette detenuti
anticastristi arrestati nel 2003 con l’accusa di "aver attentato
all’indipendenza e all’integrità territoriale dello Stato", insomma sette
accusati fra quelli vittime della "sindrome dell’assedio" che
talvolta blocca le aperture della rivoluzione, o fra quelli ingaggiati dal
Dipartimento di Stato Usa con i 140milioni di dollari stanziati nel 2007 dal
governo di George W. Bush, per istallare all’Avana, come una volta, un
protettorato degli Stati uniti.
Da quanto tempo si sarebbe potuta risolvere questa
invincibile incomunicabilità che di fatto blocca l’evolversi della democrazia
nell’isola?
Alla fine degli anni ’70 questo miracolo stava accadendo,
per la disponibilità del Presidente nordamericano Jimmy Carter che aveva
delegato il diplomatico Wayne Smith a trattare con Fidel Castro la fine delle
ostilità e il ripristino delle relazioni. Ma poi Carter perse le elezioni.
Vinse Regan e di pace non si parlò più.
Ora, l’uscita di scena di Fidel e le dichiarazioni di
Barak Obama sulla cancellazione dell’embargo in caso di sua elezione alla
presidenza degli Stati uniti, aprono nuovi scenari che ancora una volta il
leader cubano favorisce, con il suo ritiro che proietta di fatto il paese nel
futuro.
Fidel Castro, d’altronde, ha molti difetti, ma non quello
di aver voluto il potere per il potere, ma semmai di averlo praticato per il
testardo tentativo di far prevalere un modello di società da lui reputato il
più etico e conveniente per il suo paese e per le terre povere del mondo.
La sua capacità di lavoro era d’altronde proverbiale. Non
a caso García Márquez ha raccontato di lui:"L’ho visto spesso arrivare a
casa mia portandosi dietro le ultime briciole di un giorno smisurato".
Questa cocciutaggine l’ha spinto spesso all’intransigenza,
a qualche durezza di troppo, ma non al desiderio di rimanere al suo posto se il
suo compito era compiuto, terminato.
Credo che, pur con tutti i limiti di un desiderio di questo
tipo, egli, in questa occasione, abbia reputato concluso il suo sforzo.
Sempre García Márquez, che lo conosce bene, ha scritto nel
prologo del libro che riunisce le sedici ore di intervista che feci nel 1987
con il leader cubano: "La sua virtù politica sta nell’intravedere
l’evoluzione di un fatto, fino alle sue più remote conseguenze", ed ha
aggiunto in un altro momento del saggio, "Indipendentemente da dove, da
come e con chi è, Fidel è li per vincere. Non c’è un cattivo perdente peggiore
di lui".
E’ possibile che Castro, spinto dagli eventi, abbia
reputato il suo ritiro dalla politica in questo momento, una ragionevole
vittoria per i sogni della rivoluzione e per le aspettative del suo popolo.