Dopo 110 giorni,
Patricia Troncoso, la mapuche cilena che rifiutava il cibo per chiedere diritti
terra e autonomia, sospende la protesta. Michelle Bachelet accetta il dialogo
proposto dai vescovi
di Geraldina Colotti, fonte: Il Manifesto [30 Gennaio 2008]
Patricia Troncoso, la leader dei mapuche cileni in
sciopero della fame da 110 giorni, ha interrotto la sua protesta a un passo
dalla morte, perché il governo di Michelle Bachelet ha deciso di accettare il
dialogo. «Se la mia morte serve alla libertà dei miei fratelli non mi
arrenderò», aveva scritto dal carcere di Angol il 23 dicembre 2007. Allora era
già al settantaquattresimo giorno di digiuno, decisa a continuare finché il
governo cileno non avesse risposto alle richieste dei mapuche: revisione dei
processi agli attivisti – istituiti in base alla legge antiterrorismo, in
vigore dai tempi della dittatura di Pinochet -; riconoscimento dell’autonomia
politica e dei diritti dei popoli indigeni, secondo la direttiva Onu; recupero
delle terre arbitrariamente sottratte ai mapuche in base al «diritto di
conquista»; demilitarizzazione dei territori mapuche, lungo il Bio bio.
Ora tutto questo è di nuovo sul tavolo della trattativa,
al vaglio della commissione interministeriale, istituita appositamente dal
governo cileno. Ufficialmente, a Patricia non è stata concessa la revisione del
processo, ma solo la possibilità di accedere alle cosiddette misure alternative
alla detenzione a marzo, quando avrà scontato la metà della sua pena (che è di
dieci anni e un giorno). Si tratta, però, di un segnale importante, che
potrebbe aprire una porta, sebbene laterale, a un cambiamento: fino a oggi,
infatti, i mapuche vengono esclusi dai benefici in quanto condannati per
«terrorismo». Per questo, sui giornali cileni, la questione tiene banco. E la
commissione interministeriale moltiplica le rassicurazioni: accettare le
richieste della detenuta mapuche in sciopero non costituirà «un precedente
ricattatorio».
Di fatto, da quattro mesi il governo era stato messo sotto
pressione dall’ampia mobilitazione popolare e dall’eco che lo sciopero della
fame aveva avuto a livello internazionale. Per Patricia si erano mobilitati
autorevoli esponenti del mondo della cultura, premi Nobel come Alfredo Perez
Ezquivel, storici di chiara fama come Gabriel Salazar, movimenti e istanze
governative: tutti chiedevano a Michelle Bachelet di intervenire. All’inizio di
gennaio, quando un giovane dimostrante mapuche era stato ucciso da un
carabiniere, si era mobilitata una delegazione di dieci organizzazioni per i
diritti umani. La centrale dei lavoratori (Cut) aveva denunciato «la brutalità
e il terrorismo dello stato» cileno di cui soffrono le comunità mapuche e aveva
espresso preoccupazione per la situazione dei prigionieri politici. Anche il
presidente Chavez, durante la
Cumbre latinoamericana per l’Alternativa bolivariana delle
Americhe, conclusasi a Caracas nei giorni scorsi, aveva lanciato un appello. E
già dal 12 novembre una delegazione di parlamentari venezuelani aveva visitato
il carcere di Angol, nel sud del Cile, dove allora erano in sciopero della fame
anche altri detenuti mapuche.
Ma l’intervento di mediazione determinante è stato quello
dei vescovi cileni: uno, soprattutto, monsignor Alejandro Goic, presidente
della Conferenza episcopale, che per primo ha instaurato un contatto con
Patricia – soprannominata la
Chepa – attraverso il cappellano dell’ospedale di Chillan,
dove la detenuta era stata trasportata la settimana scorsa e dove, contro la
sua volontà, veniva alimentata artificialmente. «I mapuche sono un popolo
paficico con cui bisogna dialogare – ha detto Goic – io lavoro con loro nella
zona di Osorno». Anche Patricia Troncoso, che stava per farsi suora, era andata
fra i mapuche per convertirli. Ma poi, la coinvolgente spiritualità di quel
popolo antico ed oppresso l’aveva conquistata.