Il Ministero dell’ Interno inglese concede il permesso di
lavoro al giovane centrocampista del Watford che rischiava di essere deportato
in Sierra Leone. Storia di un salvataggio popolare
Di Luca Manes, fonte: Il Manifesto – 16 Gennaio 2008
«Save Bangura».
Così recitava uno dei tanti cartelli esposti dai tifosi durante
una delle ultime partite casalinghe del Watford, prima di natale. Save
Bangura, cantavano in coro sugli spalti.Salvatelo dalla deportazione. L’hanno
salvato. Dopo una lunga diatriba legale, il giovane centrocampista della Sierra
Leone ha ottenuto lunedì la certezza che non verrà espulso dall’Inghilterra e
rispedito in patria. Un panel di esperti del Ministero degli Interni gli ha
concesso il permesso di lavoro, ribaltando la decisione presa dal tribunale
dell’immigrazione che a dicembre aveva clamorosamente rigettato la sua
richiesta di asilo politico. Potrà dunque continuare a giocare col club dell’estrema
periferia nord-occidentale di Londra che oggi sgomita in serie B ma che negli
’80 fece lungo parlare di sé perché il presidente era Elton John (lo è ancora,
ad onorem) e perché lanciò una delle prime stelle nere della nazionale dei re
leoni, John Barnes. In Italia il Watford se lo ricordano più che altro perché
rifilò al Milan il bidone Luther Blisset e qualche anno fa affidò la panchina a
Gianluca Vialli, senza troppo fortuna. A 19 anni, Al-Hassan Bangura erà già
diventato capitano del Watford ma per le rigide regole inglesi
sull’immigrazione sembrava sul punto di dover far ritorno nel paese natale,
abbandonato 4 anni fa in circostanze drammatiche. La Sierra Leone è la
terra dei diamanti insanguinati, negli anni novanta la guerra civile ha fatto
almeno 50mila vittime secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, il paese
ha il più basso indice di sviluppo umano nel mondo dopo il Niger.
Durante la guerra, insieme alla madre e a due sorelle
Bangura si era spesso rifugiato oltre confine, in Guinea. Poi nel 2002, una
volta finito il conflitto, era tornato in pianta stabile a Freetown, a
completare gli studi e a giocare al calcio, la sua grande passione. Pochi mesi
dopo però aveva scoperto che il padre, la cui identità fino a quel momento non
gli era mai stata rivelata, era il capo di una setta segreta, i Soko, che
praticava la stregoneria e come rito di iniziazione prevedeva atti di
mutilazione. Poiché il padre era morto in guerra, Al gli sarebbe dovuto
succedere come nuova guida della setta. Non esattamente ciò che si aspettava
dalla vita. Il rifiuto di seguire le orme paterne aveva portato a pesanti
minacce di morte e così il giovane Bangura aveva deciso di lasciare la famiglia
e fuggire in Europa grazie alla collaborazione di un francese interessato alle sue
doti calcistiche. Era passato per Parigi, poi a Londra, per scoprire che il
filantropo d’oltralpe non lo voleva far correre dietro a un pallone ma buttare
in un giro di prostituzione maschile. Sfuggito a un tentativo di stupro, il
ragazzo si rifugia in un ostello per stranieri, avvia le pratiche burocratiche
per la richiesta d’asilo e trova infine accoglienza a Peckham, quartiere
popolare a sud del Tamigi, dove incontra numerosi compatrioti che gli danno una
mano ad inserirsi nel tessuto sociale della comunità. Un osservatore del
watford lo vede giocare in un parco e lo consiglia all’allenatore Aidy
Bothroyd: comincia nelle giovanili e a 17 anni fa l’esordio in prima squadra.
L’anno scorso disputa 16 partite in Premier League ed è l’unica nota positiva di
una stagione che il club conclude con la retrocessione. Gli addetti ai lavori
lo paragonano subito a Claude Makelele, centrocampista del Chelsea ed ex
cardine della mediana del Real Madrid. Insomma davanti a sé ha un futuro
brillante, che neanche una brutta distorsione alla caviglia che lo tiene fuori
squadra da tre mesi sembra poter compromettere.
Prima di Natale invece arriva la doccia fredda. Gelata.
«Niente asilo politico, non riteniamo valide le ragioni del giocatore. Allo
stato attuale è un immigrato illegale, per cui devi far ritorno in Sierra
Leone». Questo il giudizio implacabile dei funzionari dell’Home Office, il
ministero dell’Interno di sua Maestà, ai quali non importa se il giovanotto in
territorio britannico ha un lavoro stabile – ben retribuito e su cui paga
migliaia di sterline di tasse – e ha pure messo su famiglia, padre di un
bambino di pochi mesi. Per ironia della sorte, la normativa inglese prevede che
un extracomunitario non possa ricevere la garanzia di un permesso di lavoro se
non ha disputato partite con la nazionale del suo paese. Sono i tifosi del
Watford a dare il via alla campagna per salvare Bangura, ribattezzato Bang
Bang. Il club, la città e il sindacato dei calciatori lo affiancano nella
battaglia legale. Elton John scrive una lettera al Ministero dello sport,
interviene in suo favore anche il ministro dell’immigrazione, Liam Byrne, che
riapre la pratica per il permesso. Alla fine il permesso arriva: Bangura può
restare, riprendere a giocare e fare richiesta di cittadinanza. Il direttore
tecnico del Watford, Iain Moody, lo butta giù dal letto per dargli la notizia.
«Ha gridato come un pazzo dalla felicità. Ha combattuto per due anni, ora potrà
finalmente prendere la patente e farsi una vacanza all’estero, cose che fino
ieri gli erano proibite perché privo di documenti». E tornare a preoccuparsi
solo per le sorti della sua squadra di calcio, di recente in preoccupante calo
di forma.