Otto anni fa, la strage di migranti nel CPT Serraino Vulpitta a Trapani

Otto anni fa, la strage di migranti nel centro di
detenzione Serraino  Vulpitta a Trapani

Fulvio Vassallo Paleologo
Università degli studi di Palermo – 27 dicembre 2007

Nella notte tra il 28 ed il 29 dicembre del 1999, al
centro di permanenza temporanea Srrraino Vulpitta di Trapani, dopo un tentativo
di fuga sedato duramente dalle forze dell’ordine, oltre dieci immigrati vennero
rinchiusi in una sola camerata ed uno di loro diede fuoco ai materassi in
gommapiuma ed ai lenzuoli di carta che costituivano l’arredo della cella. A
seguito del rogo, durato alcune decine di minuti, morirono tre immigrati
tunisini mentre altri tre, gravemente ustionati, morirono in ospedale a Palermo
nei mesi successivi. Nel mese di gennaio del 2000 venne presentato un esposto
alla magistratura in cui si denunciarono le condizioni di sicurezza e la
mancanza di scale ed uscite di sicurezza.

L’immigrato che aveva materialmente dato fuoco ai
materassi della cella fu rapidamente condannato e in pochi mesi venne espulso
dal nostro paese. Nel frattempo l’indagine avviata dalla magistratura comportò
la chiusura del centro, in diverse occasioni, per le persistenti carenze
strutturali, con la richiesta (e nel gennaio del 2001 il rinvio a giudizio) del
prefetto di Trapani del tempo, imputato di omissione di atti d’ufficio, di
incendio colposo e di concorso in omicidio colposo plurimo. Nel corso del
processo, il centro di detenzione Serraino Vulpitta veniva riaperto e chiuso a
più riprese, per disposizione dei magistrati, e poi del Ministero dell’interno,
per lavori di ristrutturazione, ma il numero massimo degli immigrati trattenuti
non superò più il numero di 57, mentre in precedenza si era arrivati a
rinchiudervi oltre 180 persone, e più di cento erano quelli presenti nella
tragica notte del rogo.

Nel luglio del 2001 il Tribunale di Trapani su richiesta
dell’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) ne ammetteva la
costituzione come parte civile, preso atto che “ sussiste l’interesse concreto
e diretto in capo all’associazione richiesto, nell’applicazione
giurisprudenziale, ai fini della legittimazione di parte civile”. Il processo
si è snodato per anni con una lunga serie di udienze, nelle quali sono stati
sentiti oltre all’imputato, i testimoni, in gran parte agenti di polizia,
quelli presenti nella struttura al momento del rogo, e quelli sopravvenuti, ed
i consulenti. Al di fuori del dibattimento erano state raccolte le
testimonianze di Dino Frisullo, e di altri esponenti della Rete Antirazzista,
che avevano effettuato visite al centro di detenzione Vulpitta a partire dalla
sua apertura nel luglio del 1998, dopo un viaggio dell’allora Ministro
dell’interno Napolitano a Tunisi, all’indomani dell’ingresso dell’Italia
nell’area Schengen.

Nel corso delle udienze, anche per opera della difesa, si
è assistito ad un continuo palleggiamento delle responsabilità tra le forze di
polizia, mentre sono apparse evidenti sia le contraddizioni presenti nelle
deposizioni di alcuni agenti e funzionari della Questura di Trapani, sia
l’improvvisazione e le modalità dell’intervento di soccorso. Al di là dei
ritardi dei primi interventi e della mancata apertura delle uscite di
sicurezza, l’intera struttura appariva inadeguata alla detenzione di un numero
così elevato di migranti in attesa di espulsione e risultavano chiare le
responsabilità di chi ne aveva disposto l’apertura, stabilendo le modalità del
trattenimento. Ma nessun componente della Commissione ministeriale che
autorizzava in quel periodo l’apertura dei CPT in Italia è stato mai chiamato
in causa nel corso del processo.
I Consulenti tecnici hanno messo in evidenza sia la durata del rogo a causa del
quale persero la vita gli immigrati, i primi tre per asfissia all’interno della
cella che li “ospitava”, che le caratteristiche strutturali del centro e la
mancanza delle minime condizioni di sicurezza richieste dalla legge e dai
regolamenti per queste strutture.

Dagli atti citati nell’ordinanza di rinvio a giudizio
emergeva peraltro come, già un anno prima del rogo il Ministero dell’interno
-con una nota- aveva chiesto al Prefetto “ la segnalazione di tutte le opere
che si dovessero rendere necessarie per il rispetto delle indicazioni
elaborate” da un gruppo di lavoro ministeriale che indicava “ la necessità che
i fabbricati fossero dotati di appositi impianti antincendio nel rispetto della
vigente normativa in materia e che fossero installati rilevatori sensibili ai
fumi, collegati ad una centralina di allarme acustico ed ottico in caso di
incendio.” Dalle deposizioni degli agenti di polizia presenti la sera del rogo
emergeva soprattutto l’assoluta carenza di estintori (sembrerebbe soltanto due
in funzione al momento del rogo) al punto che numerosi agenti hanno affermato
di avere contribuito a spegnere il rogo con gli estintori in dotazione sulle
proprie autovetture.
Spettava comunque al Prefetto l’ organizzazione della struttura e delle sue
dotazioni, oltre che il rispetto delle normative in misura di sicurezza, mentre
rientrava nella competenza del Questore e degli agenti di servizio, la gestione
del centro, ed il mantenimento dell’ordine all’interno della struttura. Al
tempo del rogo non esistevano ancora soggetti privati convenzionati.

Il processo si è poi concluso con l’assoluzione di tutti
gli imputati, confermata successivamente da una sentenza della Corte di Appello
di Palermo, quindi alla fine, malgrado l’ingente mole di documentazione
consentisse di individuare ritardi ed omissioni gravi che avevano contribuito a
determinare il tragico bilancio di morti, nessun colpevole per una strage che è
rimasta impunita (gli atti del processo sono consultabili nel sito di
Sergio Briguglio
). Non restava altro –intanto- che dare voce alle vittime
che avevano vissuto la terribile condizione di detenzione all’interno del
centro. Nel 2003 veniva presentato, e quindi successivamente aggiornato, un
Libro Bianco sul Serraino Vulpitta, nel quale si raccoglievano numerose
testimonianze di immigrati che erano stati rinchiusi in quella struttura e
lamentavano ogni genere di abusi e di disfunzioni (rinvenibile nel sito
www.cestim.it).

Nel corso degli anni il Vulpitta è stato quindi chiuso e
riaperto a più riprese, con la costruzione di quelle scale di sicurezza che
mancavano nel 1999 quando si verificò il rogo, e si sono ancora verificati
ribellioni, atti di autolesionismo e tentativi di fuga, duramente repressi
dalle forze dell’ordine che sono intervenute anche con squadre speciali. Non
sono neppure mancati episodi di pestaggi, come nel dicembre del 2005 (1), e in
segno di protesta un immigrato è giunto persino a cucirsi la bocca Si sono
verificati anche altri incendi, e dal 2006, dopo l’ultimo rogo, per fortuna
senza vittime, il centro di detenzione ha funzionato soltanto per metà. Non è
neppure cambiato l’ente gestore. Tutto all’insegna della continuità, dunque.

La Commissione De Mistura aveva svolto il suo lavoro
tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 per verificare quali centri di
detenzione andassero immediatamente chiusi in attesa di una nuova legge che
abrogasse la Bossi-Fini,
senza ritornare alla legge Turco-Napolitano che aveva istituito nel 1998 i
centri di permanenza temporanea. In Sicilia si è chiuso il centro di detenzione
amministrativa per donne ubicato a Ragusa, ma il Serraino Vulpitta, malgrado i
rilievi contenuti nella relazione della Commissione De Mistura, ha continuato a
funzionare nella lugubre struttura ancora annerita, in alcune parti, dai
precedenti roghi. Adesso probabilmente avranno imbiancato per l’ennesima volta
le pareti, e il Vulpitta continuerà ad “ospitare” per chissà quanto tempo
ancora immigrati in attesa di espulsione, o semplicemente in attesa che passino
i rituali sessanta giorni, prima di essere rimessi in libertà con l’ordine
–ineseguibile, per carenza di mezzi e di documenti -di lasciare entro 5 giorni
il territorio nazionale. Un passaporto per la clandestinità.

Certo in questi anni le funzioni dei centri di permanenza
temporanea sono molto mutate, queste strutture servono più come contenitori di
immigrati irregolari presenti da tempo nel nostro paese, una ulteriore
occasione di esclusione e di clandestinizzazione, piuttosto che come strutture
destinate a contenere l’immigrazione clandestina. Per questo ormai ci sono le
pattuglie armate di FRONTEX e i centri di detenzione nei paesi di transito, dal
Marocco, all’Algeria, alla Tunisia, alla Libia, all’Egitto. Le procedure di
espulsione e di trattenimento sono state esternalizzate, con il contributo
finanziario dell’Unione Europea e con i nuovi accordi economici e politici conclusi
dai governanti europei con i dittatori nord-africani.

L’umanità che si trova ancora oggi nei centri di
detenzione ammnistrativa, malgrado le tante promesse non mantenute del governo
Prodi (la funzione dei centri avrebbe dovuto diventare “marginale” dopo
l’approvazione della nuova legge Amato-Ferrero, ancora arenata in Parlamento)
non è molto diversa dagli uomini e i minori che abbiamo conosciuto tutte le
volte che abbiamo potuto visitare i CPT, e poco cambia se la fantasia
ministeriale appare inesauribile nel coniare sempre nuove denominazioni (fino
al concetto terribile di centro “polifunzionale” (CPT-CID-CPA), coniato dal
ministro Pisanu nel 2003 ed ancora oggi in auge, come Pian del lago, a
Caltanissetta) per confondere l’opinione pubblica e nascondere quella che è la
vera sostanza di queste strutture. Vi sono pure strutture che funzionano di
fatto come centri di detenzione senza neppure esserlo, come il centro di
accoglienza (tra le sbarre) di Cassibile, vicino Siracusa, anche questo
“censito” con rilievi assai critici dalla Commissione De Mistura, ma ancora
oggi inspiegabilmente in funzione, malgrado le documentate denunce che si sono
accumulate negli anni.

I centri di detenzione amministrativa (comunque li si
chiami) sono luoghi che ancora oggi rimangono al di fuori dei principi basilari
dello stato di diritto, governati dalla discrezionalità amministrativa con il
contorno formale dei giudizi di convalida ancora affidati ai giudici di pace,
in aperto contrasto con il carattere eccezionale della detenzione
amministrativa stabilito dall’art. 13 della Costituzione. Spesso mancano gli
interpreti, gli avvocati faticano persino per la sottoscrizione delle procure,
gli agenti consolari vi hanno libero accesso e possono anche intimidire chi
vorrebbe proporre una istanza di asilo, le possibilità effettive di una difesa
legale indipendente sono ridotte al minimo. E tutto questo, malgrado
l’(apparente) apertura ai mezzi di informazione ed il crescente coinvolgimento
di organizzazioni non governative che in queste strutture vedono principalmente
la possibilità di istituire nuovi posti di lavoro per i propri dipendenti.
Altri, che una volta si trovavano dalla parte di chi si batteva contro i centri
di detenzione, oggi accettano di convenzionarsi con le Prefetture per offrire
quei servizi che poi vengono spacciati come tentativi di “umanizzazione”.

La triste storia dei CPT non è affatto finita, anzi, con i
nuovi decreti sulla sicurezza, la loro funzione viene rilanciata, serviranno
anche per i neocomunitari che non ottempereranno a quei requisiti di stabilità
di soggiorno e di reddito richiesti dal legislatore italiano, in aperto
contrasto con le direttive comunitarie che affermano la libertà di circolazione
per tutti i cittadini comunitari. I mezzi di informazione, dopo avere aperto
qualche squarcio su questa realtà, come fece l’Espresso con il reportage di
Fabrizio Gatti da Lampedusa, si sono rapidamente allineati alla consegna del
silenzio. Per quanto tempo ancora continueranno a chiamarli centri di
accoglienza?

 (1) Emergenza
centri di detenzione amministrativa: che succede a Trapani?

(Documento del 22 dicembre 2005)

La situazione nei centri di detenzione amministrativa in
Italia va diventando insostenibile, anche per effetto della condizione di
promiscuità delle persone che vengono internate (immigrati provenienti dal
carcere o appena sbarcati, richiedenti asilo o residenti in Italia da anni ma
irregolari perché hanno perduto il permesso di soggiorno) e per il raddoppio
della durata del trattenimento: la violenza dilaga sia tra gli stessi
immigrati, che, ed è questo l’aspetto più preoccupante, nei rapporti tra gli
agenti di polizia e le persone che vengono rinchiuse in queste strutture. Le
misure appena approvate con la legge ex Cirielli, sanzionando aumenti di pena per
i recidivi e limitando i benefici della legge Gozzini renderanno ancora più
drammatiche le condizioni degli istituti di pena e scaricheranno tensioni
ancora più forti sui centri di detenzione amministrativa. L’ideazione dei
“centri polifunzionali” (CPT, centri di identificazione e centri di transito),
fortemente voluti dal Ministero dell’interno, rende ancora più incerta la
condizione giuridica degli immigrati che vi sono rinchiusi e costituisce la
premessa per ogni sorta di abusi e violenze.

Ma la situazione all’interno dei CPT è già oggi esplosiva.
Le tragedie del passato, come il rogo che nel 1999 costò la vita di sei
immigrati rinchiusi nel CPT di Trapani, ed i processi penali in corso, giunti
in alcuni casi alla condanna dei gestori di questi centri, sembrano non avere
insegnato proprio nulla.

A Trapani, nel centro di detenzione amministrativa Serraino- Vulpitta, come già
denunziato in pasato, si sono registrati in diverse occasioni tentativi di fuga
e gesti di ribellione, che sono stati “sanzionati” non in base a quanto
prescritto dalla legge, con una denuncia penale, nel rispetto comunque della
dignità e della integrità fisica delle persone, ma con veri e propri “pestaggi”
personalizzati che hanno solo determinato un clima ancora più difficile di tensione.
Negli anni scorsi le visite dei parlamentari regionali come l’On. Lillo
Miccichè e nazionali come l’On. Graziella Mascia avevano accertato la
condizione fisica di immigrati con evidenti segni di ematomi, che sarebbero
stati conseguenza, a detta delle forze dell’ordine, di scontri avvenuti durante
partite di calcio. Il timore di ritorsioni aveva portato gli stessi immigrati a
mezze ammissioni sulla reale causa delle loro ferite.

Il clima di tensione all’interno dei CPT, e di quello di Trapani in particolare,
non è mai diminuito e sono ancora costanti i tentativi di autolesionismo,
sfociati in qualche caso anche in tentativi di suicidio, le fughe e le
ribellioni, sedate con gli strumenti più violenti.

All’interno del centro di detenzione Serraino Vulpitta, nel piano sottostante
alle stanze destinate al “trattenimento” si trova una cella di isolamento nella
quale, nei giorni scorsi, è stato rinchiuso un giovane immigrato marocchino Edi
Zegayer di appena 19 anni, incensurato, che durante una visita effettuata da
una delegazione parlamentare sabato 17 dicembre scorso mostrava (vicino ad un
occhio) il segno di una sigaretta spenta sul volto. Il giovane aveva raccontato
la sua storia alla senatrice De Zulueta, raccontando di essere stato vittima di
un aggressione da parte di un altro immigrato africano, aggiungendo che dopo
avere subito i colpi sul volto si era adoperato perché i suoi compagni
maghrebini non lo vendicassero. Il suo atteggiamento appariva rassegnato e
dimesso. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Dopo la visita della delegazione,
ed il successivo ingresso dell’ on. Giovanni Russo Spena, avvenuto in un clima
di forte tensione nella giornata di domenica, a seguito di un ennesimo
tentativo di fuga, secondo diverse testimonianze, sarebbe scoppiato un
contrasto tra Edi Zegayer ed alcuni agenti di polizia che avrebbero condotto
l’immigrato prima in Questura (sembrerebbe per due giorni) e poi nella cella di
isolamento ubicata al primo piano del CPT Vulpitta. Nella giornata di
mercoledì, mentre gli altri trattenuti protestavano per conoscere la sorte del
loro compagno, si apprendeva che Edi Z. era di nuovo trattenuto nella cella di
sicurezza del Vulpitta, sanguinante, ferito al volto, quasi impossibilitato a
stare in piedi, con un cerotto applicato in prossimità degli organi genitali,
dove sarebbe stato colpito con calci. Una stanza contigua presentava ancora
tracce di sangue sul pavimento. Tutto il contrario dei locali lindi e puliti
presentati nei giorni precedenti alle delegazioni parlamentari.

Un altro immigrato proveniente dal carcere che aveva protestato con le stesse
delegazioni parlamentari per non avere ricevuto le somme che gli spettavano per
il lavoro prestato durante il periodo di detenzione ( aveva ricevuto un assegno
“non trasferibile”) risultava “scomparso”, trasferito in un’altra struttura (
forse Caltanissetta) o rimpatriato. Un immigrato rumeno che nel comune di
Castellamare del Golfo aveva tentato invano di denunciare il proprio datore di
lavoro era stato accompagnato in frontiera con grande sollecitudine, mentre
nessuna indagine era stata avviata contro chi aveva sfruttato il suo lavoro in
nero.

Durante la visita della delegazione parlamentare avvenuta nella giornata di
sabato 17 venivano denunciate a gran voce espressioni minacciose da parte di
alcuni agenti di polizia nei confronti di un immigrato che protestava con
maggiore vigore per le condizioni di trattenimento e per la impossibilità di
fare valere i propri diritti. Le minacce di ritorsioni alimentavano un clima di
violenza e di rivalsa tra gli stessi immigrati di cui anche noi eravamo stati
testimoni diretti.

Ma l’elenco degli abusi riscontrati durante tre giorni di
visite di delegazioni parlamentari e di agenzie umanitarie si allunga ancora di
più e si estende a tutta la
Sicilia, se si pensa al caso di una ventina di immigrati
giunti a Lampedusa il 4 novembre, trasferiti da lì a Caltanissetta, nel centro
“polifunzionale” voluto dal ministro Pisanu, dove avevano ricevuto notifica del
decreto di respingimento “differito” emesso dal Questore di Agrigento solo in
data 3 dicembre, dopo un mese circa di trattenimento arbitrario senza alcun
provvedimento formale, con la prospettiva di dovere trascorrere ancora altri
sessanta giorni all’interno del CPT Vulpitta in base al decreto di trattenimento
emesso dal Questore di Caltanissetta il 13 dicembre u.s., convalidato il 16
dicembre. Evidente lo stato di tensione prodotto dalla prospettiva di dovere
aggiungere altri sessanta giorni ai trenta già “scontati” nella “zona contigua”
al CPT di Caltanissetta, una zona dove gli immigrati vengono trattenuti giorni
e giorni senza ricevere provvedimenti di espulsione o di respingimento, di
fatto una limitazione della liberta personale in evidente contrasto con l’art.
13 della Costituzione italiana. In questo caso, almeno, è stato possibile fare
arrivare un avvocato che ha raccolto le procure necessarie per difendere gli
immigrati, mentre per Edi Zegayer, come in molti casi precedenti nei quali si
erano riscontrate ferite ed ematomi, sono state fortissime le pressioni per
costringere la vittima al silenzio e per fare ritrattare le accuse contro gli
autori dei pestaggi.

La condizione di isolamento nella quale è stato Edi Z. posto negli ultimi tre
giorni non ha consentito neppure l’incontro con un avvocato di fiducia, e
sembrerebbe anzi, secondo quanto dichiarato dallo stesso, che lo stesso Edi sia
stato sentito da un magistrato senza la presenza di un interprete.

Si apprende intanto che per giovedì mattina è fissata una udienza in cui Edi Z.
comparirà davanti al giudice. Probabilmente, dopo le percosse subite, è stato
pure denunciato per reati commessi ai danni della struttura e delle forze
dell’ordine, nel tentativo di difendersi ai colpi che gli venivano inferti.
Potrebbe arrivare una condanna per direttissima. Insomma il sistema CPT sta
producendo un altro “criminale” condannato per la vita alla clandestinità!

Non sarebbe la prima volta che di fronte alla volontà
espressa da alcuni immigrati che intendono sporgere denuncia per percosse
subite si è prospettata la possibilità di una controdenuncia degli stessi, da
parte delle forze di polizia. Poi però, una volta sortito l’effetto di far
scomparire la volontà di denuncia ( ma non i lividi o la memoria dei fatti),
nessuno si è più preoccupato di sporgere la denuncia che era stata minacciata.
Come se il compito della forze di polizia fosse quello di impedire qualunque
possibilità di denuncia e non invece quello di applicare la legge ed i
regolamenti, che impongono il rispetto della dignità e dell’integrità fisica
delle persone trattenute nei CPT (come dei detenuti), ferma restando la
possibilità di perseguire penalmente chiunque compie reati trovandosi in stato
di detenzione all’interno di un centro che alcuni continuano a chiamare come un
centro di “accoglienza”. Questa gestione da “ordine pubblico” all’interno dei
centri di detenzione amministrativa non tutela neppure la sicurezza degli
operatori della struttura. Nella visita di sabato 17 dicembre la tensione era
così alta che la delegazione parlamentare è stata costretta ad effettuare le
audizioni degli immigrati nella sala destinata alle forze di polizia piuttosto
che nella sala mensa vicino alle stanze adibite al pernottamento.

Quanto avviene all’interno del Serraino Vulpitta di
Trapani getta una luce sinistra sulle prospettive che si profilano oggi alla
vigilia dell’appalto di una nuova struttura detentiva per migranti, in località
Milo, sempre in provincia di Trapani. I lavori saranno come al solito
“secretati” e grazie ai decreti del governo che reiterano da anni lo stato di
emergenza in materia di immigrazione procederanno con appalti conferiti in base
alla “somma urgenza” ed alle procedure accelerate degli interventi della
protezione civile (quindi al di fuori di procedure a rilevanza pubblica). I
“soliti noti” otterranno l’affidamento della gestione della struttura.

Chiediamo la istituzione di una commissione di indagine
sui centri di detenzione aperti in Sicilia, dopo che numerosi parlamentari
nazionali e regionali, associazioni ed agenzie umanitarie, hanno effettuato
periodiche visite, riscontrando situazioni di totale negazione della dignità
umana, dei diritti fondamentali della persona ( a partire dal diritto di difesa
e di comprensione linguistica), delle minime condizioni igieniche e sanitarie.

Non si può tollerare ancora che le denunce rigorosamente documentate di
Fabrizio Gatti rimangano isolate e che allo stato l’unico indagato sia proprio
il coraggioso giornalista. Come non si può tollerare il clima di velata
intimidazione nel quale si trovano spesso ad operare i rappresentanti delle
associazioni antirazziste. Per non parlare del costante monitoraggio e delle
intercettazioni illegali ai danni di tutti coloro che prestano assistenza agli
immigrati irregolari. Sarebbe tempo che in questo campo intervenisse il Garante
della privacy.

Sarebbe anche tempo che il Parlamento nazionale avvertisse
l’esigenza di una indagine complessiva per stabilire cosa avviene dentro i
centri di detenzione e quale sorte è riservata ai richiedenti asilo che
finiscono in queste strutture. Le risorse destinate agli immigrati non devono
esaurirsi nel finanziare gli accompagnamenti coatti in frontiera, o la
costruzione di nuove strutture detentive, ma vanno destinate a favorire
percorsi di integrazione, di emersione dalla irregolarità e di effettivo
riconoscimento normativo ed assistenziale del diritto di asilo riconosciuto
dall’art. 10 della nostra Costituzione.

Malgrado gli sforzi dei Prefetti e degli enti di gestione i centri di
permanenza temporanea non sono luoghi che possono essere umanizzati e gli abusi
riscontrati nelle ultime visite confermano come queste strutture vadano chiuse
al più presto. Bisogna rompere il circuito carcere >CPT e abolire il
principio incostituzionale della doppia pena, base della legge Bossi-Fini.( detenzione
+ trattenimento amministrativo) con una diversa e più selettiva disciplina dei
casi di respingimento e di espulsione. Gli accordi di riammissione stipulati
con i paesi di transito e di provenienza dovranno rispettare le garanzie minime
dei diritti della persona umana e vietare le espulsioni collettive, consentendo
a tutti il diritto di ricorso e di comprensione linguistica dei provvedimenti
di accompagnamento forzato.

Palermo 22 dicembre 2005
Fulvio Vassallo Paleologo

Leggi
anche la lettera del Laboratorio Zeta di Palermo
[ venerdì 28 dicembre
2007 ]

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