Un corpo a corpo sulla linea del colore

La costruzione delle
differenze tra le razze ha avuto una lunga gestazione. Dalla supposta
scientificità delle differenze biologiche alla centralità delle differenze
culturali. Un’anticipazione di un saggio del filosofo francese Etienne Balibar

          Etienne Balibar
Etienne BalibarAlcuni analisti e saggisti vedono nel razzismo un fenomeno
del passato, sempre più marginale, che tenderebbe naturalmente ad affievolirsi
se non fosse «artificialmente» rinvigorito da strategie controproducenti e dagli
«effetti perversi» di definizioni e interventi istituzionali quali
l’affirmative action praticata negli Stati Uniti e le misure più o meno
equivalenti di lotta contro le discriminazioni adottate in altri paesi.
Non sono solamente i conservatori o i neoconservatori,
come il sociologo statunitense Dinesh D’Souza, autore di un libro-manifesto
sulla «fine del razzismo» pubblicato nel 1995, che credono di poter fare uso
del concetto di «razza» o di «differenza razziale», affermando al contempo che
le società moderne stanno superando i pregiudizi e le discriminazioni. Anche
alcuni intellettuali di sinistra non esitano ad affermare che le differenze
professionali, o le differenze di generazione o di sesso, tendono oggi ad
assumere, all’interno della conflittualità sociale, il ruolo che ieri era
proprio delle differenze razziali, in particolare nei paesi segnati dal
colonialismo e dalla schiavitù. Essi si presentano come i difensori di un
universalismo repubblicano che teme che la difesa delle minoranze e dei gruppi
oppressi degeneri in rivendicazioni «comunitariste», oppure cercano di
elaborare una politica di emancipazione «post-coloniale» e «postmoderna» che
permetta di passare dal discorso della razza e del razzismo a quello delle
identità multiple «nomadi» o «diasporiche», che sovvertono le tradizionali
concezioni eurocentriche della comunità.(…)

Ciononostante, man mano che dei conflitti a carattere
etnico-religioso situati nel Nord come nel Sud generano genocidi e politiche di
sterminio, come nella ex-Jugoslavia e in Africa orientale e centrale, o
proiettano nel mondo intero i fantasmi della cospirazione e dello scontro di
civiltà – come nel caso del conflitto israelo-palestinese – si diffonde l’idea
che il razzismo in quanto tale è un fenomeno permanente, il cui ritorno
periodico tradurrebbe l’incapacità delle società di «progredire» nella civiltà
o la loro insuperabile dipendenza dalle strutture arcaiche della mentalità
collettiva. Si può allora pensare che i dibattiti attuali attorno all’uso e
alle applicazioni della categoria «razzismo» non soltanto comportano tensioni
estreme, ma rischiano di generare confusione. Una confusione che non ha solo
risvolti epistemologici, poiché il razzismo è, prima di tutto, un oggetto
politico e gli aspetti della teoria e della lotta sono indissolubilmente
legati.(…)

Per quanto marginali possano sembrare di fronte ai
dibattiti attuali, queste considerazioni sono indispensabili per articolare tra
loro tre tipologie di conseguenze di cui siamo gli eredi. Prima di tutto le conseguenze
epistemologiche che riguardano la stessa organizzazione del sapere
contemporaneo «sull’uomo»; quindi il sorgere di resistenze al paradigma
dominante, che possiamo chiamare «umanista»; e, infine, la sua progressiva
trasformazione in un paradigma diverso, quello del «razzismo senza razze» o
«razzismo culturale» (razzismo «differenzialista»).

Le conseguenze epistemologiche non solamente sono
sorprendenti per la loro influenza sull’organizzazione delle scienze umane, ma
soprattutto per la problematica del razzismo, interpretato filosoficamente come
proiezione ideologica o mitica delle differenze naturali interne alla specie
umana a discapito della sua essenziale indivisibilità, che viene così a
trovarsi al cuore dei presupposti dell’antropologia, e non a derivare solamente
da applicazioni specifiche. Parlerei allora di una rivoluzione copernicana
nella storia dell’antropologia, che la fa passare da uno sguardo «oggettivista»
a uno sguardo «soggettivista» nell’uso del concetto di razza. L’antropologia, in
effetti, si distacca dallo studio delle differenze tra le razze e della loro
disuguaglianza, considerate come fenomeni oggettivi di cui occorre rintracciare
le conseguenze nel campo della politica e della cultura, per passare allo
studio del «razzismo», ovvero di quella credenza soggettiva in una
disuguaglianza fra le razze, che proietta una griglia d’interpretazione
«razziale» sull’insieme della storia o riduce l’insieme delle differenze umane
a un modello immaginario di supposte differenze originarie ed ereditarie. (…)

Non dubito che questo cambiamento marchi un nuovo inizio
nella storia della disciplina antropologica. Ma occorre domandarsi se non ci
sia un elemento di continuità soggiacente al ribaltamento dell’oggettivismo in
soggettivismo, benché le conseguenze pratiche siano opposte. L’antropologia è
sempre un progetto di conoscenza e di riconoscimento di sé da parte
dell’umanità o d’identificazione dell’umano nell’uomo. Essa cerca di rispondere
al problema dell’identità e delle differenze interne al «mondo umano» come
mondo storico, geografico, culturale. Chi siamo e dove siamo gli uni in
rapporto agli altri? A questa domanda, dal diciottesimo secolo e fino alla metà
del ventesimo, in un mondo dominato da una filosofia della storia
euro-centrica, hanno preteso di fornire una risposta la storia naturale, la
biologia e la psicologia delle razze.

Dopo la
Seconda guerra mondiale, nonostante alcuni presagi della
rivoluzione copernicana nella critica del determinismo biologico da parte del
culturalismo – sarebbe utile qui concentrarsi particolarmente sugli Stati Uniti
d’America, sulle opere simmetriche di W.E.B. Du Bois e di Franz Boas – la
prospettiva diviene bruscamente quella dello studio del «razzismo» e della sua
teorizzazione. L’umanità in quanto tale non è più quindi una specie il cui
sviluppo è guidato dalle differenze di razza, ma una specie composta di
individui e di gruppi capaci di sviluppare il razzismo, forse addirittura
inevitabilmente condotti a costruire dei miti razzisti – e più generalmente
delle illusioni «xenofobe », «eterofobe» – sotto l’effetto di una sorta di
illusione trascendentale, o come conseguenza della propria organizzazione in
culture, società e comunità separate da rapporti di dominazione oggettivi. È
quello che potremmo chiamare «teorema di Sartre», pensando al modo in cui,
nello stesso periodo, nelle sue Réflexions sur la question juive (1946), questi
sosteneva che «l’Ebreo non esiste», ma che «è l’antisemitismo che fa l’Ebreo».

Tuttavia, in entrambi i casi si suppone che la «scienza» o
la «conoscenza scientifica» ci diano la risposta definitiva. Formulare
quest’osservazione, sia ben chiaro, significa non squalificare l’idea e la
possibilità di una conoscenza scientifica, ma suggerire come la critica
epistemologica applicata alle «teorie razziali» potrebbe rivolgersi anche
contro i propri eredi, ossia contro le teorie del «razzismo storico». Significa
soprattutto mettere in discussione il «doppio empirico-trascendentale» che qui
riguarda non l’individuo, ma il «genere umano», partendo da un principio morale
e filosofico dell’unità dell’umanità e assegnando alle discipline
antropologiche il compito di spiegare il sorgere dei pregiudizi razziali,
ovvero dei soggetti o delle soggettività «razziste». È chiaro che questa
funzione è segnata da un’ambiguità alla quale è forse impossibile sfuggire.

Gli stati razziali
Conformemente a quello che era il programma iniziale delle
istituzioni internazionali, tale ambiguità s’iscrive in una prospettiva di
progressiva abolizione del razzismo da parte della scienza e della
volgarizzazione scientifica, della pedagogia e della legislazione, che
riproduce l’ideale, derivato dall’Illuminismo, di autoeducazione dell’umanità.
D’altra parte tuttavia, all’interno di società che potrebbero essere caratterizzate
come «Stati razziali» – nel senso dato al termine da David Goldberg – essa
s’iscrive in un programma di regolazione delle race relations, e dunque dei
conflitti e delle rappresentazioni razziste. In questo senso tutti gli Stati
contemporanei – anche se il razzismo non è istituzionalizzato come fondamento
ideologico della cittadinanza – sono degli «Stati razziali», poiché comportano
delle disuguaglianze e dei conflitti sociali rappresentabili in termini di
differenza razziale o di suoi equivalenti – la differenza etnica, la condizione
migratoria -, e, al contempo, sono impegnati in una lotta politica e giuridica
di riaffermazione dell’uguaglianza, perlomeno formale. Si consacrano così al
compito di «combattere il razzismo», di «estirparlo » dallo spazio pubblico e
dalle istituzioni della comunità politica. Tutto ciò ha importanti conseguenze
pratiche; basti pensare allo sviluppo di una giurisprudenza dedicata alle forme
di discriminazione razziale e alle modalità del razzismo. Si potrebbe sostenere
che questo è l’altro versante – quello istituzionale della rivoluzione
epistemologica prima illustrata.

Per questo è importante, in conclusione, tentare di
identificare questa rivoluzione epistemologica, che fa dello studio del
«razzismo» in quanto fenomeno ideologico, il cuore della disciplina
antropologica e allo stesso tempo assume che esso, nelle sue cause, nelle sue
varianti e nelle sue trasformazioni storiche, deriva da una spiegazione
antropologica – da modelli universali di strutture sociali e simboliche – dalle
resistenze che suscita e dalle eccezioni che comporta. Queste sono tanto
antiche quanto il modello antropologico stesso, di cui mettono in dubbio la
validità e la legittimità istituzionale conferitagli dagli organismi culturali
e politici19. Esse propongono dei modelli alternativi per la comprensione dei
comportamenti e delle rappresentazioni razziste e si interrogano sulla validità
stessa della categoria di «razzismo» come categoria universalizzante. (…)

I limiti del
paradigma

Non si trattava certamente, in questa sede, di svolgere
una presentazione completa del paradigma antropologico, dei problemi che esso
pone o delle trasformazioni che subisce nel momento in cui la definizione del
«razzismo» si trova di fronte a nuove situazioni storiche. Si trattava
solamente di indicarne la necessità. Il problema che si pone è quello di sapere
se la stessa categoria di razzismo non è oggi giunta a un punto di
decomposizione e di decostruzione. I problemi epistemologici che si pongono
sono due e occorre porli simultaneamente. Da un lato, all’interno dello stesso
paradigma antropologico, la comprensione del razzismo evolve in direzione di un
concetto di «razzismo culturale» o di «razzismo differenziale». In un certo
senso, questo rappresenta la logica conclusione della frattura che aveva
condotto ad abbandonare la visione naturalista in favore di quella storica e di
analisi delle rappresentazioni collettive caratteristiche del paradigma
antropologico. Tuttavia diventa improvvisamente problematico assegnare dei limiti
alla categoria, limiti dai quali pure dipende il suo uso scientifico, il suo
valore analitico: ogni fenomeno di discriminazione, ogni violenza simbolica
sembrano esservi compresi. La reversibilità stessa del razzismo e del sessismo
sembra perdersi nella loro equiparazione. D’altra parte nuovi «casi», nuovi
«esempi» sembrano sostituirsi, almeno in parte, al sistema ternario che
sottendeva la definizione iniziale: antisemitismo, colonialismo, apartheid.

Le regole
dell’esclusione

Allo stesso tempo la problematica delle discriminazioni
istituzionali legate alla destabilizzazione delle comunità politiche – a
partire dalle nazioni – si fa sempre più insistente nelle società
post-coloniali e negli insiemi transnazionali o post-nazionali, lasciando in
secondo piano il criterio della divisione «naturale» della specie umana, o
delle credenze, dei miti che l’invocano. Altri criteri di definizione delle
strutture, dei discorsi e dei comportamenti razzisti, quali il criterio di
esclusione – o meglio dell’esclusione interiore – emergono in primo piano.
Questi non hanno, almeno in apparenza, bisogno di riferirsi alle «razze».
Occorrerebbe quindi esaminarne la costituzione e il funzionamento nelle
ricerche contemporanee, ampliando l’analisi qui cominciata.

Il Manifesto 19.12.07

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