Identità fragili nella provincia francese

Un ragazzo alle prese
col sottile razzismo di chi cerca di integrarsi a tutti i costi nel romanzo
«Alphonse» dell’autore francese di origine algerina Akli Tadjer  
di Giuliano
Battiston
 

copertina libro Nella brasserie parigina «Terminus Nord», una donna dalle
palpebre come «cortine di grasso abbassate su uno sguardo esausto», Juliette,
si guarda intorno cercando Alphonse. Alphonse è suo cugino, «un cugino che ha
visto undici giorni in tutta la sua vita», e che ora, a quarant’anni di
distanza, vuole consegnarle un pacchetto di lettere che racchiude «una vecchia
storia con le parole piene di errori di ortografia». Comincia così Alphonse
(traduzione di Maria Teresa Carbone, Giunti Blu, pp. 120, euro 12.50), ultimo
volume del trittico composto da Akli Tadjer (gli altri due sono Courage et
patience e Le Porteur de cartable), autore francese di origine algerina (o
meglio cabila), uno dei migliori rappresentanti di quella letteratura
franco-magrebina che, almeno a partire dalla pubblicazione nell’83 del Thé au
harem d’Archi Ahmed di Mehdi Charef, sonda con appassionata insistenza la nuova
Francia multietnica e i problemi della sua «costruzione».

Nato a Parigi nel 1954, prima di dedicarsi alla scrittura
Akli Tadjer ha lavorato come fattorino e giornalista, per imporsi
all’attenzione della critica e del pubblico nel 1984, con Les Ani du «Tassili»,
un romanzo che fa dell’incerta identità del protagonista, Omar, in viaggio
sulla nave «Tassili» tra Marsiglia e Algeri, il prisma attraverso cui leggere
l’instabilità esistenziale di un’intera generazione di persone. Una instabilità
causata dalla «sospensione» di identità e dal cortocircuito di valori e
immaginari simbolici caratteristici di molti migranti, ma anche dal razzismo,
esplicito o sotterraneo, delle società che li accolgono: non a caso, per il
titolo di quel suo primo libro Tadjer ha fatto ricorso a un acronimo, Ani, che
sta per Arabe Non Identifié, un derivato ironico di Ovni, Object Volant Non
Identifié, gli ufo alla francese.

Anche in Alphonse, il giovane protagonista, attraverso il
cui sguardo viene narrata la storia si accorgerà presto di avere un’identità
indefinita, perché troppo piccola o troppo grande per le categorie degli
«altri», i «veri francesi», o quelli che, pur non essendolo, aspirano a
esserlo. Nell’agosto del 1964, infatti, dal quartiere parigino di
Montorgueil-Tiquetonne, dove la sua alterità viene diluita nell’indifferenza
metropolitana, finisce in una casa di rue Kléber-Rolle, nella cittadina di
Annay-sous-Lens, dove la sua differenza invece viene vista come un pericolo. È
la casa dello zio Salah, fratello del padre, un uomo rassegnato «che aveva dato
le dimissioni da tutto», per il quale la vita in quel miserabile paese è come
una condanna divina, ma che non intende comunque tornare in Cabilia, «nemmeno
con i piedi davanti».

I figli, «Robert, il grande, Charles, il quasi grande,
Jean, il medio, Albert, il medio piccolo, Juliette, la pollastra», del
Nordafrica non vogliono neanche sentir parlare. Sono francesi, loro. Tanto
francesi da aver fatto proprio il razzismo verso gli stranieri, che ora
trasferiscono su Alphonse. L’arrivo di un «mucchietto di letame su due zampe»
che gli ricorda le loro origini e la loro identità ibrida rischia di
compromettere la fragile costruzione su cui si reggono le loro esistenze di
immigrati di seconda generazione. Per questo, devono annientarne o fagocitarne
l’alterità, ridurne la pericolosa eccedenza. Lo fanno in primo luogo
cambiandogli nome, perché ogni nome porta con sé una storia, e quella di
Alphonse è anche la loro. A Parigi quell’arabo «vero al cento per cento» potrà
pure chiamarsi Mohamed, ma lì ad Annay il suo nome è Alphonse, decide Juliette.
Quarant’anni dopo, al «Terminus Nord», Mohamed aspetta Juliette. Lei si guarda
intorno e all’inizio non lo riconosce: cerca Alphonse.

Il Manifesto -14.12.07

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