I muri e le gabbie

I muri e le gabbie
del Cpt di Gradisca

di Riccardo Bottazzo – tratto da: Carta.org

graffito sul muro del CPT di GradiscaA Gradisca di Isonzo, in provincia di Gorizia, a un numero
civico inesistente di via Udine, corrisponde un muro di cemento. Dietro il muro
c’è una garitta presidiata da poliziotti armati. Passata la garitta, si entra
in un cortile d’asfalto e ci si trova davanti a un altro muro. Dietro il
secondo muro, c’è una cancellata di sbarre d’acciaio. Dentro la cancellata ci
sono le gabbie, chiuse con altre inferriate che salgono sino al cielo. In
ognuna di queste gabbie, c’è una cella. Nella prima di queste celle, ci sono un
cesso senza porta, otto brande sfatte e un materasso buttato per terra. In una
delle brande disfatte, gioca una bambina di otto mesi. Qualche giorno fa la
bambina è stata ricoverata d’urgenza in ospedale perché intossicata da una
pioggia di lacrimogeni, lanciati dai poliziotti per cercare di bloccare un
tentativo di evasione. La bambina era chiusa dentro la gabbia con sua madre e
non poteva neppure scappare all’aperto. Se tutto ciò vi pare «normale»,
«accettabile» o in qualche misura «giustificabile», potete anche fare a meno di
continuare la lettura dell’articolo.

Perché il Centro di permanenza temporanea di Gradisca
d’Isonzo – di questo stiamo parlando – è un buco nero che inghiotte in egual
misura i diritti civili e la dignità di chi vi è rinchiuso con la sola
imputazione a carico di un reato amministrativo: il mancato possesso di un
documento valido per l’espatrio. Entrarci da uomini liberi non è facile,
nonostante tutte le assicurazioni di trasparenza che puntualmente rilascia il
ministro dell’interno Giuliano Amato. Venerdì 28 settembre, l’associazione
Melting Pot e il consigliere regionale dei verdi del Friuli Venezia Giulia,
Alessandro Metz, hanno organizzato l’ennesima ispezione e per l’ennesima volta
sono stati lasciati fuori.

«Non c’è niente da fare – spiega Marco Visintin, portavoce
di Melting Pot – Siamo un’associazione che secondo il testo al decreto Amato
che avrebbe ‘aperto’ i Cpt, ha tutte le carte in regola per partecipare
all’ispezione ma ogni volta trovano una scusa nuova. Adesso salta fuori che
dovevamo presentare un documento che prova che lavoriamo in convenzione con la Regione. Gli ho detto
che glielo facevo arrivare subito via fax ma pare che non siamo più in tempo…»
«A me hanno risposto che dovevo presentare una richiesta scritta del presidente
del consiglio regionale. Tre giorni fa invece mi avevano assicurato che ci
voleva il permesso del presidente della provincia di Gorizia e io me lo ero
pure procurato – commenta amaro Metz – La realtà è che sanno benissimo che se
entravo non ne sarei uscito senza la bambina e la madre. Non è ammissibile
continuare a tenerle dentro. Qualcosa bisogna fare. Domani [sabato 29.ndr]
torneremo qui con un presidio e un sit in. Non possiamo far finta di niente e
accettare che una bambina di otto mesi fuggita da un paese in guerra nelle
braccia di sua madre, cresca in questo lager».

Dentro le mura di cemento sono riusciti ad entrare solo un
gruppetto di giornalisti [tessera alla mano e fax di conferma inviato alla
testata con tanto di firma del prefetto] e tre onorevoli del parlamento
nazionale: Iacopo Venier [Pdci], Franco Turigliatto [Sinistra Critica] e Sabina
Siniscalchi [Rifondazione]. Fuori della porta, invece, sono rimasti anche i
collaboratori parlamentari.

Non si può mai essere sicuri di chi entra, gli hanno
spiegato davanti al primo cancello. «E’ la prima volta che mi succede. Non mi
era mai capitato neanche nelle carceri di massima sicurezza» ha commentato
stupito Venier. Il Cpt infatti non è un carcere di massima sicurezza. Nelle
carceri di massima sicurezza, si sa quanto tempo si dovrà trascorrere dietro le
sbarre. Avvocati, familiari, associazioni di volontariato possono entrare. I
detenuti hanno dei diritti. Chi vi è rinchiuso è stato giudicato da un
tribunale colpevole di un qualche reato penale. C’è la possibilità di ricorrere
ad altri gradi di giudizio. E c’è una legge che – perlomeno in teoria – è
uguale per tutti, senza distinzione di razza o religione.

In questo, nella sua arbitrarietà, il Cpt è più vicino ad
un lager. «Mi scusi, ma… perché sono qua?» ha chiesto educatamente a Venier un
migrante somalo. Sono scappati in cinque dalla guerra, racconta. Due sono stati
ammazzati in Libia dagli scafisti. Hanno attraversato il mare ammassati come
bestie, pagando tutto quello che avevano, scarpe comprese. Sbarcati a
Lampedusa, sperava che fosse finita. Ora si trova dietro le mura del Cpt di
Gradisca. Separato dai suoi amici, finiti chissà dove. Pronto per essere
rispedito in Somalia legato come un pacco postale. «Perché sono rinchiuso qua?»
Venier scuote la testa: «Non lo so. Mi spiace…». Ci viene in mente quel brano
di Primo Levi in cui un prigioniero ebreo appena arrivato in un lager si prende
un calcio di fucile sui denti da un nazista. «Perché?» gli chiede. «Qui dentro
non ci sono perché», è la risposta. Il giovane somalo fa parte di uno degli
ultimi gruppi di profughi, uomini e donne, arrivato il 25 luglio a Gradisca
direttamente da Lampedusa. Nello stesso gruppo c’erano la madre e la bambina di
otto mesi, di nazionalità eritrea.

Il Centro italiano rifugiati [Cir] sta seguendo le loro
pratiche di richiesta di asilo politico. Tra gli «ospiti della struttura», come
continuano a chiamarli i responsabili della cooperativa Minerva che gestisce il
centro di Gradisca, sono anche i più fortunati. Loro non sono chiusi nel Cpt ma
nel Cpa. Cioè non nel Centro di permanenza temporaneo vero e proprio ma nel
Centro di prima accoglienza, con la possibilità di inoltrare una richiesta di
asilo. Non è che cambi molto in realtà. Le sbarre sono sbarre per tutti. E così
i muri di cemento. Ma gli «ospiti» del Cpa hanno la possibilità – tutta teorica
– di uscire qualche ora al pomeriggio. Si intende: uscire senza soldi e pure
senza vestiti pesanti. Già. «Se gli diamo i vestiti, poi fuori li vendono» mi hanno
spiegato i gestori del centro.

Per entrare nel Cpt vero e proprio, bisogna attraversare
altri due pesanti portoni antisommossa.

Gli interni non cambiano. Sbarre, cortili di cemento,
altre sbarre, celle con brande e bagni alla turca. Cambia però la gente che ci
vive. Qui c’è più disperazione. Cambia anche la composizione etnica. Sono
tutti, o quasi tutti, di origine araba. Anche loro sono sbarcati a Lampedusa
nei mesi dell’estate appena conclusa. Anche loro hanno fatto domanda di asilo.
Ma in meno di due settimane gli è stata data una risposta negativa. «Vengono
dall’Egitto o dalla Tunisia – ha detto Ettore Rosato, sottosegretario agli
interni, in occasione dell’ultimo vertice della sicurezza alla Prefettura di
Gorizia – Da questi Paesi la gente non chiede asilo politico». E come no? In
Egitto e in Tunisia ci sono dei governi talmente democratici… Forse è che sono
«solo» governi amici o, come si dice comunemente, «moderati».

Grazie a un interprete, riusciamo a ricostruire i fatti
dell’ultima sommossa, scoppiata domenica 23 settembre, la terza nel giro di
pochi giorni, che ha portato al ferimento della bambina e di altri «ospiti» del
Cpt. «Siamo disperati. Nessuno parla la nostra lingua. Non capiamo dove siamo.
Gli avvocati quando capiscono che non possiamo pagare, se ne vanno e non li
vediamo più. Ci fanno firmare carte che non sappiamo leggere. Domenica,
giravano voci che all’indomani ci avrebbero mandato indietro. Abbiamo parlato
tra noi e poi, alle 10 di sera, siamo saliti sulle sbarre, scorticandoci mani e
piedi, per scappare via». A vedere quella foresta di sbarre incurvate pare
impossibile. «Pure a me. Ma li doveva vedere, dottore: si arrampicavano come
scimmie», ha puntualizzato un rappresentante della Prefettura. Subito sono
arrivati i reparti mobili della polizia che, per non far torto a nessuno, hanno
cominciato a bombardare di lacrimogeni tutta la struttura. Finendo per
asfissiare anche la bambina e le altre donne rinchiuse nelle vicine gabbie del
Cpa. «Una reazione assolutamente ingiustificata – ha commentato Venier che
annuncia una interrogazione parlamentare per chiarire i fatti –. Una reazione
insensata e violenta che ha messo a rischio la vita di tutti quelli che erano
dentro. Una reazione, tra l’altro, non concordata né con la Prefettura né con gli
operatori del centro che si trovavano all’interno e che stavano per convincere
i pochi migranti che erano riusciti a salire sul tetto, a scendere
pacificamente». Poi i soliti racconti di botte e manganellate: «Ci hanno messo
in ginocchio, ammanettati dietro le spalle dalle dieci di sera alle quattro del
mattino. Anche chi era ferito. Anche io che mi ero rotto i piedi», spiega un
giovanotto costretto sulla sedia a rotelle. Il giorno dopo, tutti i rivoltosi,
esclusi i feriti più gravi, sono stati rimpatriati con procedura urgente.
«Eppure ci avevano detto che se denunciavamo gli scafisti ci avrebbero dato
asilo in Italia – urla il ragazzo dai piedi rotti – Sono bande organizzate di
farabutti che si approfittano dei disgraziati come noi. Siamo pronti a raccontare
tutto ma i poliziotti li abbiamo visti solo con i manganelli in mano. Perché
nessuno vuole sapere la verità?».

Meglio non fare domande. Meglio chiudere tutto e tutti
nelle gabbie, sbarrate dietro le cancellate, dietro il muro, dietro il cortile,
dietro l’altro muro senza numero civico, in via Udine, a Gradisca d’Isonzo.

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