L’ultima possibilità Mumia Abu-Jamal, detenuto simbolo della lotta contro la pena di morte, affronta un’udienza che potrebbe riaprire il caso. O portarlo al patibolo
di Alessandro Ursic – fonte Peacereporter
Tra i circa 3.300 detenuti statunitensi nel braccio della morte, Mumia Abu-Jamal è di sicuro il più famoso. Condannato a morte nel 1982 per aver ucciso un poliziotto durante una sparatoria, questo giornalista e attivista afro-americano è diventato negli anni un simbolo dei movimenti contrari alla pena capitale, ricevendo l’appoggio anche di numerose celebrità dello spettacolo: lo slogan “Free Mumia!” è diventato quasi un logo. Ora, dopo 25 anni passati dietro le sbarre, per il 53enne Abu-Jamal passa l’ultimo treno: un’udienza davanti alla Terza sezione di Philadelphia di una Corte d’appello federale. Due ore davanti al giudice che potrebbero portare alla conferma della condanna a morte, all’ergastolo o addirittura a un rifacimento del processo.
Il caso. Attivo dalla fine degli anni Settanta nella scena alternativa di Philadelphia, Mumia Abu-Jamal (vero nome Wesley Cook) era un membro delle Pantere nere, un’organizzazione per la tutela dei diritti degli afro-americani negli Stati Uniti. Scriveva articoli, conduceva trasmissioni radiofoniche, ma per arrivare alla fine del mese lavorava come tassista. Nella notte del 9 dicembre 1981, proprio mentre era di turno al volante, finì coinvolto in una sparatoria dove morì il poliziotto Daniel Faulkner, ucciso con cinque colpi di pistola. Abu-Jamal, che rimase lui stesso ferito, si era precipitato sul posto in difesa del fratello minore William, fermato dal poliziotto alla guida della sua auto. Secondo la pubblica accusa, forte del ritrovamento della pistola di Abu-Jamal dalla quale mancavano proprio cinque proiettili, fu Mumia a uccidere Faulkner. Secondo il giornalista-attivista, invece, il colpevole sarebbe un terzo uomo che poi si è dato alla fuga.
Venticinque anni in carcere. La condanna a morte arrivò nel 1982, dopo un processo denunciato da molti come irregolare, con testimonianze contraddittorie e test balistici incerti, conclusosi con sole quattro ore di camera di consiglio. Secondo i difensori di Abu-Jamal, dalla giuria popolare erano stati esclusi di proposito i neri, e il giudice capo Albert Sabo avrebbe detto – sentito da uno stenografo in aula – “farò friggere quel negro sulla sedia elettrica”. Dopo una serie di sentenze ed appelli, nel 2001 il giudice distrettuale William Yohn confermò la condanna di Abu-Jamal ma annullò la sentenza di morte. Il verdetto è stato impugnato sia dall’accusa (che vuole l’esecuzione) sia dalla difesa, che pretende un rifacimento del processo. L’udienza di oggi, 17 maggio, è probabilmente l’ultima possibilità in vista di un verdetto che arriverà tra qualche mese. L’avvocato di Abu-Jamal, Robert Bryan, ha affermato che “io e lui siamo molto realisti sulla posta in palio”. All’esterno della corte e in altre città, sono già in programma manifestazioni in favore di Mumia.
Cause celèbre. Nonostante le richieste di una scarcerazione o almeno di un nuovo processo, Abu-Jamal non è mai uscito dalla sua cella. Ma da lì ha continuato a scrivere, pubblicando anche un libro sulla vita nelle prigioni Usa. La sua causa è diventata popolare anche in Europa: qualche anno fa Saint Denis, una città alla periferia di Parigi, gli ha dedicato una via, e la capitale francese gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Molte associazioni umanitarie, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, lo hanno difeso. Ma per denunciare le presunte irregolarità del processo nei suoi confronti, più che per reclamare la sua innocenza. Un atteggiamento tenuto negli anni anche dallo stesso Abu-Jamal, non sempre collaborativo con gli inquirenti: una sua difesa secondo le regole, disse una volta, avrebbe implicato che accettava la regolarità del processo. L’udienza finale mostrerà se questa è una tattica che paga.