Il mito della sicurezza

Firenze e la guerra
ai lavavetri
Il mito della
sicurezza e la nuova dimensione della politica
.
di Elisabetta Ferri – Meltingpot

L’ordinanza del Comune di Firenze emanata il 25 agosto
2007 bandisce dalla città il “mestiere girovago di cosiddetto lavavetri”. Il lavavetri viene, da questo atto a firma del sindaco
Dominici, incluso tra le categorie pericolose, pericolo per la circolazione e
per l’incolumità propria e altrui. Un’ordinanza insomma, l’ennesima, emessa in nome della
sicurezza pubblica.
Il provvedimento introduce anche l’arresto per chi non vi
ottemperi, facendo ricorso, visto che ad un sindaco non è ancora dato inventare
nuovi reati, ad un articolo del Codice Penale che sancisce l’arresto fino a tre
mesi per chi “non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per
ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o d’igiene.”
(art.650 CP).
Un ampio potere discrezionale, dato che ormai in nome
della retorica della sicurezza si può proibire, o compiere, qualsiasi atto. Potere
che prende forma nella figura dello sceriffo-sindaco.

E i lavavetri sono spariti dai semafori di Firenze. A
motivo della decisione, spiega l’Assessore alla sicurezza Cioni, le lamentele
da parte dei cittadini che hanno subito, secondo quanto dichiarato, minacce e
tentativi di aggressione. Se alcuni avvocati stanno pensando a come attaccare
il valore giuridico di questo provvedimento, molti politici, in modo
bipartisan, stanno apprezzando la creatività della giunta fiorentina: Penati,
il presidente della Provincia di Milano, Borghezio, Maroni e Veltroni, un altro
sindaco-sceriffo prossimo ad essere investito a leader del Partito Democratico
e che vanta nel proprio curriculum altri atti significativi dal punto di vista
della gestione del territorio in nome della sicurezza dei cittadini: la
cacciata da Roma di 28 campi Rom per un totale di 15 mila persone deportate e
la firma dei patti per la sicurezza, insieme alla collega Moratti, che di
sicurezza se ne intende e indicendo una fiaccolata ha subito ottenuto dal
Governo l’aumento dei poliziotti richiesti.

Cofferati, il precursore della figura di sindaco-sceriffo
tra quelli del centrosinistra, aveva già emanato un’ordinanza contro chi lava
vetri ai semafori, senza arrivare a prevedere l’arresto come sanzione.

La misura è piaciuta anche al Ministro dell’Interno Amato.
La sicurezza è divenuta il cuore della politica di destra e di sinistra. Non si
parla di diritti del lavoro e dell’abolizione della legge 30, non si parla dei
morti sul lavoro, non si parla dell’uscita dell’Italia da due inaccettabili
guerre di aggressione a fianco dell’alleato statunitense, non si parla della
difesa ambientale del territorio, non si discute di una riforma della
istruzione o della sanità che le riportino ad essere quello che dovrebbero, un
diritto per i cittadini e non un azienda. Non si parla di abolizione della
legge Bossi-Fini. E l’elenco potrebbe continuare.

Si parlerà però, proprio a Firenze, di immigrazione nel
primo Convegno Annuale sull’Immigrazione programmato dal Ministero dell’Interno
e dall’ANCI il 21 e 22 settembre 2007.

Interessante il titolo “Verso una società multiculturale.
Dalle esperienze del territorio alla costruzione di nuovi modelli”. Dal
territorio ai modelli, questa la nuova politica.

Una politica locale riportata su dimensioni nazionali e
una politica nazionale giocata su scala locale, come quando dissero che davanti
al CPT di Bologna non si poteva andare per motivi di ordine pubblico.

Nessuna risposta in merito ai motivi politici per cui si
chiede la chiusura di queste carceri etniche.

Ma se la politica nazionale può essere pensata come
gestione del territorio è perché dalla politica sono scomparsi, o stanno
occultando, i grandi temi. Oppure si sta affermando la politica di trattarli,
appunto, come questioni di sicurezza.

Questo è l’annuncio sinistro che la contemporaneità tra
l’ordinanza di Firenze e l’avvio di questa kermesse sui temi dell’immigrazione
lasciano presagire.

La città è divenuta simbolo e il modello di una nuova
forma di governo, il governo della popolazione, fatto di controllo, esclusione
e confini interni dentro le città e ai territori.

Questo paradigma prende forma anche nell’apparato di
controllo dispiegato sui nostri territori attraverso le telecamere che
costituiscono un moderno panopticon che lega spazio ed esercizio del potere,
creando una soggettività assoggettata.

Uno spazio urbano di esercizio del potere.

Il lessico della stigmatizzazione di comportamenti che non
si vuole abbiano spazio in città richiama le retoriche della devianza e della
esclusione di chi esce dalla norma. In questo caso il nemico sono i
"lavavetri", ma sono più in generale Rom, migranti, graffitari, tutti
i tipi di diversi, che vengono bollati come ‘altro’ attraverso un controllo
della popolazione che è insieme una enunciazione della normalità.

“Il soggetto normale si costituisce così come tale
escludendo da sé un anormale, e se “normale” vuole dire qui più o meno
attivamente, più o meno consapevolmente, partecipe di una definizione positiva
delle condizioni di vita, questo movimento corrisponde allo spostamento
progressivo del confine che separa da coloro che vengono sempre più respinti a
morte.”, (da La città biopolitica, Cavalletti, ed Bruno Mondadori)

Non sembri eccessivo questo spingere a morte. Non c’è
bisogno certamente di ricordare la quotidiana strage di migranti nel
Mediterraneo o nel Sahara, strage di non-persone che non spinge a gridare a
nessun allarme ne i fanatici della sicurezza ne quelli del diritto alla vita. E
per tornare alle nostre città non bisogna andare lontano per trovare notizie di
morti alle periferie dell’umano. Come quella dei bambini rom rumeni di Livorno,
morte forse evitabile se vi fosse stata una maggior attenzione dei genitori ma
sicuramente, soprattutto, impossibile in condizioni di vita diverse, dignitose,
che in una baracca sotto un ponte sono difficili da ricostruire.
Questo, sì, dovrebbe far gridare allo scandalo in nome
della sicurezza.

Il governo delle città, divenuto il governo tout court,
viene effettuato tramite ordinanze di messe al bando e con le ruspe, che
travolgono spazi occupati come campi abusivi.

Il sindaco-sceriffo-moralizzatore diventa così il tutore
di quegli interessi economici che intrecciano il reticolo urbano e che hanno
colonizzato tutto quanto vi è dispiegato, anche i luoghi di cultura e di
ricerca – quanto più dovrebbe essere protetto dalla colonizzazione delle
logiche economiche: le Università.

Dentro questo reticolo non sono tollerati corpi estranei,
girovaghi, senza fissa dimora, freak e dissidenti.

Ma la riflessione sugli spazi del potere, sulla
microfisica dei poteri, permette di tracciare delle vie di fuga possibili:
produzione di discorso che dia voce agli anormali e ai devianti senza
classificarli in una estraneità marginalizzata ma dispiegando il potere del
diverso – del desiderante – e creazione/difesa di spazi al di fuori del dominio
della normalità statistica e della produzione di soggettività disciplinate alla
produzione e assoggettate.

Spazi dove i messi al bando siano i sindaci-sceriffo.

Questa l’unica possibile politica a partire dai territori.

 

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