«Sono stato bravo, il
capo mi ha detto che li ho sbranati». Il «capo» è Gianni De Gennaro, gli «sbranati»
sono i giudici che indagano sulla Diaz, quello «bravo» è un dirigente di
polizia, preventivamente istruito su cosa dire per smontare il processo di
Genova. Dalle intercettazioni dell’ inchiesta che accusa di istigazione alla
falsa testimonianza l’ ex capo della polizia, emerge una ragnatela di falsità
per garantire impunità e delegittimare la magistratura (continua, insieme ad altri articoli) dopo l’ editoriale di
Gabriele Polo)
Sovversione di stato editoriale di Gabriele Polo, su Il Manifesto di oggi
Un processo da pilotare, scansare, svuotare. Con una serie
di false testimonianze rese da rappresentanti dello stato per difendere
un’istituzione dello stato. Anche a costo di screditare, svilire, immobilizzare
un’altra istituzione dello stato. Il tutto diretto dai massimi vertici di chi
dovrebbe garantire la sicurezza dei cittadini e, invece, tutela solo se stesso
e il suo potere.
Genova, G8, processo per i fatti della Diaz: quello che pubblichiamo
è il racconto di un tentato sopruso contro il diritto, per coprire la messa in
mora del diritto durante due terribili giornate di un’estate di sei anni fa. Le
false testimonianze dei dirigenti di polizia su indicazioni dell’ allora capo
della polizia Gianni De Gennaro (poi promosso a capo di gabinetto del Vicinale),
il tentativo di smontare l’ inchiesta sulla mattanza della Diaz attaccando il
magistrato inquirente e la partecipazione a tale disegno dell’ attuale capo
della polizia Antonio Manganelli, possono essere letti come una “semplice” difesa
di interessi personali o come una “nobile” tutela dell’ onorabilità di corpo. Ma
probabilmente c’è qualcosa di più profondo e grave.
Sappiamo tutti cosa è stata Genova 2001, nell’ evidenza
delle violenze e degli abusi. Sappiamo qual è stato il suo senso politico, nell’
indiscutibilità del dominio che nessuna piazza avrebbe più dovuto contestare. Ma
sappiamo meno quale redifinizione dei poteri dello stato si sia praticata in
quei giorni tra piazza Alimonda, la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto. Ora,
l’ inchiesta che dovrebbe portare (condizionale d’ obbligo) al rinvio a
giudizio di Gianni De Gennaro ci aiuta a capire meglio.
L’ accusa per De Gennaro è d’ istigazione alla falsa
testimonianza, cioè una regia tesa a coprire e difendere il sistema costruito
dall’ ex capo della polizia: una gestione dell’ ordine pubblico totalmente
svincolata dal controllo della magistratura. Genova, l’ assalto alla Diaz fatto
in assenza di alcuna tutela di legge (il magistrato avrebbe dovuto essere come
minimo informato), rivelano una sovversione interna allo stato: prima un uso
tutto politico – appoggiato dal potere esecutivo – dell’ ordine pubblico, poi
la polizia che si appropria del potere d’ arresto e di persecuzione penale. La
rappresentazione esemplare di cosa avrebbe dovuto essere quella struttura
centrale di Ps (nata poi nel 2006) costruita ad immagine e somiglianza dell’
FBI, il modello americano che bypassa la magistratura tanto caro a De Gennaro,
che con gli apparati USA ha ottimi rapporti. Da qui le bugie (“siamo stati
attaccati”), le false prove (le molotov “trovate” alla Diaz), le false
testimonianze per smontare il processo.
A che punto sia arrivata tale degenerazione lo indicherà
la sorte del processo di Genova. Quali argini esistano ancora a una gestione
autoritaria e “indipendente” dell’ ordine pubblico, quali limiti abbiano i suoi
dirigenti, lo dovrebbe dire il governo.
Così
volevano smontare la Diaz
La deposizione truccata dell’ ex questore Colucci. E il
ruolo «attivo» dell’ ex capo della polizia De Gennaro, dell’ attuale
Manganelli, del questore di Bari Gratteri e di Superi, ai vertici del Sisde
Di Sara Menafra
Vertici della polizia contro la procura di Genova.
Obiettivo: smontare il processo sui fatti della Diaz, «sbranare», come avrebbe
detto De Gennaro, i pm che hanno messo i
vertici del Viminale sulla graticola. Il racconto di come, quanto e da chi sia
stata cambiata la deposizione dell’ex questore Francesco Colucci, che la procura
di Genova considera falsa, narra una storia di imputati e testimoni uniti
dietro una bandiera comune. Che scelgono cosa dire e cosa non dire, cosa
smentire e cosa confermare. Sempre, par di capire, sotto le indicazioni dell’ex
capo della polizia, accusato di istigazione alla falsa testimonianza. Ma anche
– si scopre leggendo l’intero fascicolo, com’è capitato al manifesto – con
l’interessamento dell’attuale direttore, Antonio Manganelli, di Francesco.
Gratteri a Bari, e Gianni Luperi, appena nominato capo del Dipartimento analisi
dell’ex Sisde (gli ultimi due, imputati al processo Diaz).
La storia comincia alla fine dello scorso aprile quando
Francesco Colucci, questore di Genova all’epoca del G8, sta per essere chiamato
a testimoniare al processo Diaz e
telefona all’ex capo della Digos Spartaco Mortola, imputato in quel processo:
«Sono stato a Roma, sono tornato ora da Roma e praticamente io il giorno 3 devo
venire a Genova -gli dice- il capo m’ha dato le sue dichiarazioni. […] Mi ha
fatto leggere, poi dice… tu devi, bisogna che tu un po’ aggiusti il tiro sulla stampa». Colucci
dovrà dire di aver avvertito personalmente il responsabile dell’ufficio stampa
del Viminale, senza avvertire De Gennaro. E’ un dettaglio che cambia poco nel
racconto del processo Diaz, da cui il «capo» non è mai stato sfiorato, ma De
Gennaro pare voler cancellare dalla propria immagine ogni ombra di sospetto, «e
vediamo poi Zucca (pm al processo Diaz e autore dell’attuale indagine ndr) come
cazzo reagisce, non lo so».
Il 3 maggio Colucci si presenta al processo Diaz. Cambia
il racconto su Sgalla e butta lì che a dirigere l’intera operazione sarebbe
stato il vice questore di Bologna Lorenzo Murgolo, l’unico funzionario presente
la cui posizione sia stata archiviata perché, hanno sostenuto i pm, non ebbe
alcun ruolo decisivo. E’ soddisfatto e, il 4 maggio, richiama Mortola: «Ieri
sera ho chiamato Manganelli. Dico: Guarda Antò… sei stato bravo, è andato
tutto molto bene, ce l’hanno detto gli avvocati», Mortola è soddisfatto: «Sì,
no, perché poi c’è lì… tu lo sai che c’è sempre la dottoressa De Meo, una
funzionaria dello Sco che va a sentirsi tutte le udienze. La mandano su, registra
tutto al computer e fa ogni volta…»; Colucci prosegue: «Se il capo vuole
maggiori ragguagli, gli ho detto… se vuole sapere qualcosa io sono qua, che
devo fare, vengo a Roma?. Poi stamattina m’ha chiamato il capo. Dice li hai, li
hai maltrattati una cosa del genere, li hai., li hai… gli hai fatto la…,
come ha detto, li hai… e no sbranati, li hai… va be insomma, una frase ha
detto. In senso positivo, chiaramente. Che era contento eccetera. Ho saputo da
FerrL.che anche Caldarozzi e Gratteri sono stati contenti, diciamo, di questa…
Luperi è rimasto contento. D’altra parte è uno scenario nuovo si è aperto per
colpa mia diciamo».
Il 7 maggio a telefonare è Francesco Gratteri: «E’ che
volevamo farti un saluto con Gilberto (Caldarozzi, all’epoca vicecapo dello
Sco, indagato ndr). Quando si dicono le cose e si dicono come giustamente e
correttamente le hai dette tu allora è doveroso, diciamo, da parte nostra
insomma rendere omaggio, come posso dire, alle persone per bene.[…] Ti
siamo… vicini e riconoscenti…» Colucci ringrazia e aggiunge: «Lui (il pm
ndr) secondo me c’ha preso uno schiaffone da Manganelli. Ce n’ha preso un altro
da me». E Gratteri soddisfatto: «Ma diciamo anche due».
Gianni Luperi, invece, chiama Mortola. E gli assicura, che
a questo punto, verrà anche il capo a testimoniare. «Luperi dice che si
riferisce al Capo (Gianni De Gennaro ndr)- dice il riassunto della pg – in
merito aggiunge di aver appena finito di parlarci e che questi gli ha
consigliato di adottare una linea comune in modo che lui venga interrogato da
tutti i difensori. Diversamente potrebbe apparire che la sua deposizione serva
solo p&’ alcuni».
Il passo successivo sarebbe toccare la posizione di
Murgolo. «Quello andrebbe inculato», promette in un’altra intercettazione,
Alessandro Perugini, l’ex vicecapo della Digos.
L’allegria di Colucci, che si vanta di aver «scardinato»
il processo in più intercettazioni, dura per giorni. E il suo continuo parlare
della soddisfazione del capo sembra tanto più credibile, perché l’ex questore
di Genova non è uomo che abbia bisogno di accreditarsi. E’ già in lista per la
nomina a prefetto, tra qualche anno andrà in pensione ed è «tra i nove più alti
dirigenti della Ps», come ha confermato a verbale De Gennaro. L’11 maggio, lo
chiama Achille Serra, ex prefetto di Roma e oggi commissario anticorruzione:
«Hai salvato quel maiale schifoso, dice che De Gennaro ti ha ringraziato» ma la sua protesta si perde in un mare di
felicitazioni.
II cielo si fa improvvisamente scuro solo il 22 maggio,
quando Colucci riceve un avviso di garanzia di cui nessuno aveva avuto sentore.
Il Viminale, il manifesto l’ha spiegato martedì scorso, la prende malissimo. Il
23 è Gianni Luperi a chiamare Colucci, «dice di essere dispiaciuto per Colucci
e che appena rientra lo chiama poi dice che comunque è una battaglia in cui
alla fine si vedrà chi ha ragione». E il 24, dice Colucci, Manganelli lo
incita: «Dobbiamo dargli una bella botta a sto magistrato, dice». Non sembra
essere una frase di solidarietà detta a
caldo, come ha commentato martedì sera il direttore della Ps. Il 25, dopo un
nuovo incontro, infatti Colucci sembra essere certo degli appoggi garantiti:
«C’erano il Capo con Manganelli, dice guarda non ti preoccupare perché qui
dobbiamo fa un’azione comune… e rompere il cazzo a sto cazzo di magistrato».
Che il castello costruito potrebbe non reggere, Colucci
inizia a sospettarlo solo il 28 maggio: «Va a finì che tutto il resto passa in
prescrizione, alla fine io rimango col carciofo in mano insomma (ndr. nel senso
che teme di essere condannato per la falsa testimonianza)». E pensa di giocarsi
il tutto per tutto. Come andrà a finire, se ci sarà un rinvio a giudizio oppure
no, lo sapremo solo entro la fine del 2007.
Quel che sappiamo già oggi è che difficilmente vedremo
cambiare strategia ai protagonisti di questa vicenda: «Io ho scoperto una cosa
[…] che i processi non si vincono o si perdono in tribunale, ma si vincono e
si perdono fuori dal tribunale…».
La «prova
falsa» che giustificò la Diaz,
un artificiere capro espiatorio e l’inchiesta dei pm. La vendetta
delle molotov scomparse
Simone Pieranni
«Quelli della Digos avevano detto "ah ce le
riprendiamo"». Marcellino Melis, responsabile del nucleo artificieri della
Digos genovese, mentre attende una chiamata, parla con un suo collega delle
bottiglie molotov scomparse. Ricorda la loro presenza dentro un sacchetto. E
conclude: «Però non lo posso dire al magistrato». E infatti Melis, ascoltato
dal pool di pm che indagano, contro ignoti, sulla sparizione delle molotov
della Diaz, non dice niente. Per questo, alla luce delle intercettazioni in
possesso della magistratura, è l’unico iscritto nel registro degli indagati,
per false dichiarazioni ai pubblici ministeri.
Tutto inizia il 17 gennaio 2007: i difensori dei
poliziotti a giudizio chiedono di poter vedere le famose molotov affinché siano
convalidati gli eventuali riconoscimenti in aula. Le bottiglie però non si
trovano più. Il presidente Barone decide che varranno i riconoscimenti
fotografici, ma la tensione sale. Parte un’indagine interna alla questura di
Genova, chiusa in fretta e furia in pochi giorni. De Gennaro, allora capo,
manda a indagare nel capoluogo ligure Giuseppe Maddalena, dirigente di polizia
e direttore interregionale per il Piemonte, Liguria e Val D’Aosta. La
conclusione è tra il laconico e il fatalista: le bottiglie devono essere state
distrutte per sbaglio. Viene fornita la cronistoria della loro esistenza: il 6
agosto 2001 le molotov sono repertate all’interno del fascicolo contro i 93
manifestanti pestati e poi arrestati alla Diaz; il 16 agosto le prende in
consegna l’artificiere Melis e le porta in questura: è la prassi per il
materiale ritenuto potenzialmente pericoloso; il 28 agosto vengono portate alla
polizia scientifica: i tecnici devono effettuare i rilievi per le impronte digitali;
il 10 settembre 2001 la scientifica trasmette i rilievi a Dominici, dirigente
della squadra mobile di Genova, che li invia alla Procura; tra il 9 e il 14
settembre 2001, per ordine del procuratore capo di Genova, Francesco Lalla,
presso lo stadio Carlini viene fatto brillare materiale esplodente di varia
natura. Poi il nulla.
Nel documento della questura genovese si lascia intendere
che le due bottiglie molotov potrebbero essere state distrutte per errore,
indicando il nome dell’artificiere, tale Marcellino Melis, come probabile
sbadato del caso. Quest’ultimo, in realtà, nelle sue consuete relazioni sulle
sue attività, annota tutto in modo molto preciso: è stato anche ascoltato nel
procedimento contro i 25 manifestanti condotto dai pm Canepa e Canciani.
Durante la sua deposizione Melis è stato preciso nello spiegare le procedure,
la documentazione fotografica con le quali solitamente si procede alla
distruzione dei reperti. Inoltre gli artificieri ricevono un indennizzo quando
distruggono, previa autorizzazione, prove processuali. Nel caso delle due
molotov della Diaz, invece, nessuna nota, nessuna foto e nessun indennizzo.
Le bottiglie, riconosciute come prova falsa solo nel
giugno 2002, quando si scoprì che anziché essere rinvenute alla Diaz erano state
ritrovate in corso Italia, risultano evaporate. Ne parla perfino l’inglese Bbc,
ma il caso non si risolve. L’inchiesta interna della questura genovese risulta
affrettata e allora la procura apre un fascicolo contro ignoti e comincia ad
ascoltare tutti gli artificieri, gli uomini della Digos di Genova e chiunque,
anche in passato, avesse potuto avere a che fare con le bottiglie: l’ipotesi
della distruzione dolosa accidentale non convince i pm. In mezzo alle
intercettazioni e alle indagini sul caso ci finiscono proprio Mortola, Colucci
e De Gennaro.
De Gennaro,
il G8 e il sogno della Fbi
I vertici
di Polizia, Ros e Sismi sono finiti tutti sotto inchiesta.
La sinistra, però,
preferisce non intervenire di Stefano Rovera
(Il Manifesto 6 dicembre 2007)
Le intercettazioni che hanno permesso alla Procura di
Genova di ricostruire parzialmente gli interventi di Gianni De Gennaro e di
Antonio Manganelli e perfino le riunioni al Viminale che avrebbero accompagnato
alcuni passaggi del processo Diaz, sono senz’altro soggette alle più diverse
interpretazioni, come quasi sempre avviene con le intercettazioni telefoniche.
Queste, poi, sono intercettazioni «de relato», non sono mai De Gennaro e
Manganelli a parlare ma altri funzionari, imputati o testimoni, a riferire cosa
avrebbero detto e fatto l’ex capo della polizia e il successore nel tentativo
di condizionare il processo.
Senz’altro gli intercettati insultano e privatamente
minacciano i magistrati, dimostrando di appartenere a quell’Italia che farebbe
a meno delle toghe, il che non è simpatico da parte di funzionari che sono o
sono stati ufficiali di polizia giudiziaria, dunque in teoria lavorano o hanno
lavorato alle dipendenze dei pubblici ministeri. Ma da qui a commettere reati
ce ne corre. La presunzione di innocenza vale per tutti, a maggior ragione per
De Gennaro che rischia il rinvio a giudizio per aver istigato l’ex questore di
Genova Francesco Colucci a mentire davanti al tribunale. E ovviamente vale per
Manganelli, che per Rifondazione sarebbe l’uomo della «discontinuità» rispetto
a De Gennaro ma fin qui l’ha dimostrato solo con quattro chiacchiere, peraltro
tardive, sulla morte del tifoso laziale Gabriele Sandri: l’attuale capo della
polizia avrebbe parlato del pm della Diaz, Enrico Zucca, come di un magistrato
a cui dare «una botta», ma non è mai stato indagato.
Certo De Gennaro, oggi capo di gabinetto del ministro
Giuliano Amato, non avrebbe di che andar fiero se si salvasse solo grazie alla
lettera con la quale ha chiesto a Colucci, che forse lo farà, di ritrattare la
sua testimonianza. La legge infatti dichiara «non punibile» il falso testimone
che si presenti in aula a raccontare finalmente la verità e le Sezioni unite
della Cassazione hanno stabilito che l’effetto della ritrattazione si estende
all’istigatore se è stato lui a determinare la seconda, corretta, deposizione.
Forse De Gennaro lo sapeva, quando ha scritto la lettera in cui invitava
Colucci a «dire la verità». Se però finisse così, la lettera sarebbe una
sostanziale ammissione di responsabilità: l’eventuale sentenza si limiterebbe a
dire che i due hanno commesso i reati contestati, reati contro l’amministrazione
della giustizia tanto più gravi se commessi da alti funzionari di polizia, ma
non sono punibili perché c’è stata la ritrattazione. Non sarebbe una gran bella
figura.
Una figura ancora peggiore, però, la sta facendo la
sinistra italiana che mantiene ai vertici della polizia un gruppo di potere che
da sei anni, da quel maledetto luglio 2001, si occupa e si preoccupa del
processo Diaz più che di qualunque altra cosa. Basti pensare che un’ispettrice
del Servizio centrale operativo diretto da uno degli imputati, pagata non si sa
da chi, tutte le settimane va da Roma a Genova a registrare e a trascrivere le
udienze. Nell’ipotesi meno grave, quei funzionari da De Gennaro in giù non
hanno commesso altri reati ma non sono sereni: non si capisce perché non
debbano essere allontanati dai ruoli di maggiore responsabilità o anche – nel
caso degli imputati di reati come il falso e la calunnia – sospesi dal
servizio, come succede a qualsiasi agente delle volanti che si faccia beccare
con uno spinello in tasca.
«Sono i migliori, non ci sono alternative», spiegano
in tutti i partiti del centrosinistra. Provengono quasi tutti da ruoli
operativi nelle squadre mobili, per essere bravi sono bravissimi: nessuno nega
che De Gennaro sia stato un brillante protagonista della stagione d’oro
dell’antimafia e molti dei suoi provengono da esperienze analoghe. Ma se non ci
sono alternative è anche perché dal 2000 ad oggi hanno avuto tutto il tempo di
fare terra bruciata attorno a loro, come sanno benissimo gli appartenenti ad
altre cordate – migliori o anche peggiori, qui non importa – che da un certo
livello in su preferiscono passare ai servizi segreti o altrove. Successe anche
a Nicola Calipari.
Quello che la sinistra non vuol vedere è che negli
apparati di polizia e di sicurezza esiste una gigantesca questione democratica.
Non solo nella polizia di stato. Anche i vertici del Ros e del Sismi sono
finiti sotto inchiesta (gli ultimi, almeno, non sono più ai loro posti). I De
Gennaro boys, però, si sono rivelati più forti degli altri. Al punto di imporre
promozioni per quasi tutti gli imputati della Diaz, non solo i pupilli del capo
ma anche quelli che all’inizio pensavano probabilmente di sacrificare, come
Vincenzo Canterini che era il comandante del nucleo speciale che fece irruzione
nella scuola: è stato incredibilmente nominato questore dalla commissione di
Colucci e si gode un piacevole incarico all’estero, in Romania.
Genova è stata innanzitutto un’operazione di
militarizzazione dell’ordine pubblico. Gli apparati, però, non solo hanno preteso
mano libera nella gestione della piazza, l’hanno cercata anche nella
repressione dei reati e nella ricerca dei colpevoli, attività che la Costituzione affida a
una magistratura indipendente. Purtroppo non è successo solo a Genova, succede
quasi tutti i giorni.
Chi conosce le procure della Repubblica sa che spesso, di
fatto, sono la polizia, i carabinieri e la finanza a decidere quali indagini
portare avanti e quali no e quali magistrati far lavorare e quali no. Succede
in misura variabile, ma soprattutto quando ci sono di mezzo potenti apparati
investigativi centrali come il Ros e lo Sco: guarda caso il progetto di De
Gennaro – premiato nel 2006 dalla Fbi per l’attività di law enforcement, che
comprende anche azioni tipiche della magistratura inquirente – era fare del
Dac, la Divisione
anticrimine centrale oggi affidata al più noto degli imputati della Diaz,
Francesco Gratteri, una super-struttura investigativa competente sia sul
terrorismo che sulla criminalità organizzata. Il piano ha incontrato resistenze
ma anche senza questa sorta di Fbi italiano (o di Ros della polizia), gli
apparati in un certo senso «dispongono» dell’autorità giudiziaria, esattamente
all’opposto di quanto prescrive l’articolo 109 della Costituzione italiana.