Mentre nella «cidade
maravilhosa» tutto si ferma per il rito annuale, l’esercito e la polizia
continuano le loro sporche operazioni contro le favelas e i favelados. Che
anche ieri hanno registrato il loro bilancio di vittime: 9 morti nel nord della
città
di Serena Corsi, fonte: Il Manifesto [31 Gennaio 2008]
Rio de Janeiro. Oggi è giovedì grasso e qui a Rio comincia il carnevale. E
quando comincia il carnevale Rio de Janeiro si ferma. Si ferma tutto ma non la
guerra civile con le favelas e i favelados. Ieri mattina all’alba 300 uomini
della Polizia civile hanno dato l’assalto a due favelas della zona nord di Rio,
Jacarezinho e il morro de la
Mangueira, sede fra l’altro di una delle scuole di samba più
famose che dopodomani sfileranno nel famoso sambodromo "Marqués de Sapucaí".
Obiettivo
dell’operazione era il recupero di auto e moto rubate. Obiettivo raggiunto: 2
auto e 16 moto recuperate, «almeno» 9 «trafficanti» uccisi. Un successo pieno
all’insegna del detto che qui in Brasile, destra o sinistra al governo, va
sempre per la maggiore: «O melhor bandido è o bandido morto».
In un’altra delle più di 500 favelas che assediano Rio, il
grande Complexo do Alemão, le donne non possono più stendere i panni sui tetti
delle loro case. Il tetto è il luogo da cui i trafficanti si mandano segnali e
appostano i loro cecchini, e i militari – poliziotti ed esercito – che
circondano il Complesso da 9 mesi sparano a vista su tutto ciò che vi si muove.
«Due donne sono già morte e diverse altre sono state ferite in questo modo
assurdo», racconta l’avvocato cinquantunenne João Tancredo, presidente dell’
«Istituto di difensori dei diritti umani». João è felice di poter ancora
mostrare la cidade maravilhosa dalla finestra nel suo studio sulla rua Rio
Branco, spina dorsale del centro di Rio: a quest’ora poteva (anzi doveva)
essere morto. Una settimana fa la sua auto è stata affiancata da due
motociclisti che l’hanno crivellata di colpi. «La cosa incredibile è che nel
verbale della sparatoria hanno scritto che si è trattato di un tentativo di
rapina, quando in nessun momento chi mi ha sparato ha cercato di estorcermi
qualcosa. Mi sono salvato perché la mia auto è blindata: tutti noi che
lavoriamo sui diritti umani siamo minacciati continuamente».
Quel pomeriggio João tornava da un colloquio nella favela
del Vigário Geral, dove il 25 novembre scorso 5 ragazzi furono freddati perché
uno di loro era uno spacciatore. I corpi furono bruciati per nascondere le
prove, ma diversi testimoni accusano i poliziotti.
Il 2007 è stato l’anno più nero per i diritti umani qui a
Rio: 1260 vittime, e secondo gli addetti ai lavori è una cifra approssimata per
difetto. Spesso le ondate di violenza precedono gli eventi che accendono i
riflettori sulla città, come è successo il 27 giugno, poco prima dell’inizio
dei Giochi Panamericani: 1350 uomini fra esercito, corpi speciali e polizia
entrarono nel Complexo do Alemão in uno scenario degno di un rastrellamento
israeliano nei territori (da allora la favela è chiamata la «Striscia di Gaza
carioca»): case e persone perquisite, interrogate e pestate in mezzo alla
strada, decine di feriti di arma da fuoco e 19 morti, tutti spogliati prima di
giungere all’istituto di medicina legale perché, spiega João, «la polvere da
sparo sui vestiti non potesse provare che lo sparo era stato a bruciapelo».
Esecuzioni sommarie.
Il carnevale, con gli occhi del mondo che dal Cristo del
Corcovado si puntano su Rio, conta su un dispiegamento di forze meno vistoso ma
altrettanto letale come dimostra l’assalto di ieri contro Jacarezinho e la Mangueira. A marzo
probabilmente sarà peggio. Per quel mese è previsto nel Complexo do Alemão
l’inizio delle grande opererazione con cui il governo Lula spera di risolvere
il problema delle favelas: il Pac, Programma di accelerazione della crescita
economica, che dovrebbe beneficiare le 2000 famiglie della fascia esterna del
Complexo e che ufficialmente ha giustificato l’invasione di giugno e
l’accerchiamento successivo, entrambi criticati dagli organismi per i diritti
umani.
Per il D-day di marzo il governo ha già chiesto
all’esercito l’impiego di altri blindati e acquistato da Israele armi
sofisticate. I trafficanti rispondono a loro volta armandosi fino ai denti con
armi super-moderne: a 200
metri dall’avenida Brasil, uno degli accessi al
Complexo, ci sono i cani da guardia del Comando Vermelho, la fazione che lo
controlla, che sorvegliano la situazione coi i mitra in mano.
Tremila reais, poco più di 1000 euro, per un mitra
comprato da una cellula corrotta della polizia o dell’esercito. «La gente si
illude che esistano corpi esenti dalla corruzione, più professionali, truppe
d’elite come il Bope, il Batalhão de operações especiais. Leggende. Abbiamo
foto di narco-trafficanti della favela Parada de Lucas con armi che ha in dotazione
solo il Bope».
Vista da fuori appare incredibile l’ostinazione con cui la
classe media carioca si aggrappa all’idea di assassinii e brutalità a fin di
bene pur di estirpare il male dalle (o delle) favelas. Gli organismi dei
diritti umani non godono di nessuna simpatia nei quartieri residenziali della
zona sud di Rio, Copacabana, Ipanema, Urca, Barra de Tijuca… Perché al di lá
dei risibili risultati concreti, la politica del pugno di ferro promessa e
attuata dal neo-governatore Sergio Cabral ha ottenuto il risultato di far
sentire una città intera in guerra. La presenza di blindati nelle strade rende
plausibile la sospensione di qualsiasi diritto e pazienza per chi muore per
sbaglio o per eccesso di zelo.
La politica di sterminio ha raggiunto il suo apice di
popolarità col film Tropa de elite che, nella intenzioni degli autori, voleva
denunciare le violenze del Bope e ha finito invece per trasformarsi nella
legittimazione collettiva della tortura e degli spari nel mucchio. Dalle
bancarelle e dai telefonini risuona continuamente il leit-motiv del film,
quello che il Bope canta durante l’addestramento: «Homem de preto, qual è a sua
missão – subir na favela e deixar corpos no chão», uomo in nero, qual è la tua
missione – salire nella favela e lasciare corpi a terra .
Sulla tragedia di Rio il relatore Onu sui diritti umani
Philip Aston ha presentato una relazione di durissima condanna contro i metodi
e l’impunità delle «forze di sicurezza». Però poi la stessa Onu schiera i
reparti dell’esercito e della polizia brasiliani che entrano nelle favelas nel
suo contingente ad Haiti, di cui il Brasile è capofila dal 2004. Il capitano
paracadutista Novaes ad esempio, che si trovava a Port au Prince nel luglio
2005 quando occorse uno dei massacri di cui si è macchiato il contingente Onu a
Cité Soleil, il grande slum della capitana haitiana, è tornato a Rio giusto in
tempo per entrare con l’esercito nel morro di Mangueira e oggi allena i corpi
speciali nella favela di Tavaré Bastos. Ai primi di marzo, a ridosso della maxi-operazione
nel Complexo do Alemão toccherà allo stesso Bope spedire i suoi uomini in
viaggio di istruzione ad Haiti. Uno scambio di know-how esemplare. La guerra
contro i poveri, in nome della sicurezza e della legalità, nel suo fuoco
incrociato tiene in ostaggio i soliti ignoti, i favelados di Port au Prince e
di Rio, prigionieri nella zona grigia contesa dai signori della guerra che si
alternano nelle loro scorrerie.