Il silenzio
devastante sulla guerra in Afghanistan
Editoriale di Maso Notarianni, Direttore di Peacereporter [15
Gennaio 2008]
Nessuno dice nulla, nessuno ne parla. Eppure i militari
italiani hanno, dallo scorso 13 dicembre, il controllo (si fa per dire, ce lo
hanno solo formalmente) della capitale Kabul. E ieri un commando talebano (non
un attentatore suicida, un vero commando militare) ha colpito il cuore della
capitale. Che non è il palazzo presidenziale di Karzai, quello non lo considera
più nessuno, ma è l’Hotel Serena. Dove stanno i ministri stranieri in visita
(quello norvegese è scappato dall’Afghanistan dopo l’attentato annullando tutti
gli impegni) e i loro plenipotenziari. Dove stanno gli uomini d’affari che
curano la ricostruzione lecita e illecita del Paese occupato dalle truppe
straniere.
Eppure agli italiani, sempre dallo scorso 13 dicembre, è
stato affidato l’avamposto di Surobi (o Sirobi, a seconda della
traslitterazione), che sta sulla strada che dalla capitale porta al Pakistan,
crocevia di tutte le incursioni talebane e teatro di centinaia di scontri
armati.
Un accenno molto significativo e assai poco citato lo ha
fatto il ministro degli Esteri D’Alema, nella trasmissione Chetempochefa, dopo
una domanda (anche suggerita da noi) sulla situazione afgana. Il ministro
D’Alema ha candidamente ammesso che, in effetti, la missione italiana è
cambiata rispetto all’inizio, perché modificata è la situazione afgana.
E adesso, mettiamo le mani su una missione che doveva
rimanere supersegreta, la missione Sarissa, che va avanti dal 2006. Altri
ne avevano già accennato. Noi abbiamo trovato elementi, e persino il logo, da
cui si evince che l’operazione militare non riguarda affatto la sola zona di
Farah.
Abbiamo mandato il mini-dossier che oggi abbiamo
pubblicato a tutti i segretari dei partiti rappresentati in parlamento, al
ministro della Difesa, a quello degli Esteri al presidente del Consiglio Prodi
e al presidente della Repubblica Napolitano, che è il garante della
Costituzione Repubblicana.
Il silenzio che abbiamo avuto, per ora, come risposta è un
urlo dirompente. Ma, anche di questo siamo abbastanza certi, se ne accorgeranno
in pochi.
Nessuno parla più di exit strategy. Nessuno parla più di
conferenze di pace. Nessuno parla di Afghanistan. Tipico, anche questo, di un
paese in guerra. Perché quando si è in guerra, la censura è sempre attenta e
vigile. Ma da noi la censura ufficiale, quella che fa vedere solo le foto dei
nostri bravi militari che curano donne e bambini e anziani e non mostra le foto
dei combattimenti, come racconta il bel libro di Gianandrea Gaiani,
Iraq-Afghanistan, guerre di Pace italiane, (tutt’altro che un pacifista essendo
lui un esperto di cose militari e se vogliamo utilizzare le categorie della
politica, certamente più vicino alla destra che non alla sinistra) è aiutata
dall’autocensura di troppi colleghi.