Extraordinary rendition // Giustizia e libertà per Kassim

giustizia e libertà per Kassim
 
Extraordinary rendition // «Io, musulmano
italiano, lasciato marcire in Marocco»

Parla dal carcere il
concittadino finito nell’incubo dei voli Cia.
Catturato in Pakistan,
interrogato dagli americani, trasferito in Marocco, torturato e condannato a 9
anni, Kassim Britel è una vittima collaterale della guerra al terrorismo. Di
cui Roma sembra essersi dimenticata … 

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Extraordinary rendition
«Io, musulmano
italiano, lasciato marcire in Marocco» Parla dal carcere il
concittadino finito nell’incubo dei voli Cia.
Catturato in Pakistan,
interrogato dagli americani, trasferito in Marocco, torturato e condannato a 9
anni, Kassim Britel è una vittima collaterale della guerra al terrorismo. Di
cui Roma sembra essersi dimenticata

di Stefano Liberti – fonte Il Manifesto

La voce arriva stanca ma distinta dal fondo della cella.
«L’Italia mi ha abbandonato. Mi lasciano qui, in carcere a marcire, solo perché
sono musulmano». Abou ElKassim Britel, detto Kassim, 40 anni di cui 18
trascorsi in Italia, cittadino italiano dal 1999, ha un tono pacato,
nonostante la drammaticità della sua storia. Una storia di abusi e torture,
degna del film di Alan Parker Fuga di Mezzanotte, cominciata nel 2002, in Pakistan, quando
è stato catturato dai servizi di sicurezza di Islamabad, torturato, interrogato
dagli americani, poi trasferito in Marocco (suo paese d’origine), ancora
torturato e detenuto in un luogo segreto, liberato e quindi nuovamente
incarcerato nel 2003 e condannato a nove anni di carcere per «organizzazione
sovversiva e riunioni non autorizzate».

Lo raggiungiamo al telefono nel carcere di Ain Bourja, a
Casablanca, dove è stato recentemente trasferito dopo aver trascorso tre anni
nella dura prigione di Salé. «Un posto allucinante, dove stavamo in otto in
celle di cinque metri per tre, ci era consentita mezz’ora d’aria al giorno,
esclusi il sabato e la domenica, il cibo era pessimo e potevi anche non essere
visitato da un dottore per un mese e mezzo».

Lo sciopero della
fame

Kassim paga lo scotto di essere un musulmano ai tempi
della guerra globale al terrorismo. Condannato per reati associativi a seguito
di un processo farsa durato mezza giornata, è stato dimenticato dal nostro
ministero degli esteri, nonostante la strenua battaglia condotta dalla moglie
Anna Lucia Pighizzini (convertitasi all’Islam con il nome di Khadija). «Ogni
tanto mi viene a far visita il console. Mi dice che si stanno muovendo per
farmi avere la grazia, ma io non mi fido più». Così Kassim ha cominciato da un
mese uno sciopero della fame ed è fermamente intenzionato ad andare avanti.
Ritiene l’Italia direttamente coinvolta nel suo caso, non solo per il
disinteresse mostrato dal governo di Roma, ma per quella che definisce «una
partecipazione attiva dei servizi di intelligence». «Quando mi hanno preso in
Pakistan, nel 2002, ho detto subito sia ai servizi pakistani che agli americani
che ero un cittadino italiano e che volevo parlare con la mia rappresentanza
consolare. Loro mi hanno risposto che l’ambasciatore di Islamabad aveva
dichiarato loro che non voleva saper niente di me perché ero un terrorista».
Seguono sessioni infinite di interrogatori e abusi in vari luoghi del Pakistan.
«Mi hanno torturato in modo bestiale. Gli americani mi hanno detto: "Non
ti crediamo. O parli o ti ammazziamo". Poi mi hanno detto che sarebbero
andati a prendere mia moglie e mia madre e avrebbero fatto loro cose che non
sarei riuscito neanche a immaginarmi».

Dopo mesi di questo trattamento, gli uomini di Washington
decidono di trasferirlo. Lo caricano quindi su un aereo, incappucciato, legato
e steso per terra. «Viaggiavo con un altro cittadino arabo, probabilmente
siriano o giordano. Lui era ferito. Non so che fine abbia fatto». Kassim non ha
la minima idea di dove lo stiano portando. Solo all’arrivo, intendendo parlare
l’arabo marocchino, capisce che è stato trasferito nel suo paese d’origine.
Chiuso in un bagno, viene fotografato e poi trasportato – sempre bendato – nel
famigerato centro di detenzione di Temara. È questo il centro nevralgico
dell’esternalizzazione in Marocco della guerra al terrorismo. È qui che,
secondo diverse associazioni dei diritti umani marocchine, sono state condotte
negli anni le vittime di varie extraordinary rendition, sottoposte poi a
tecniche di interrogatorio poco ortodosse. Britel conferma: «Mi hanno tenuto lì
otto mesi. I marocchini mi interrogavano. Mi torturavano. Volevano che
confessassi presunti legami con gruppi terroristici. Nel cortile, ogni tanto sentivo
parlare in inglese con accento americano, anche se non so se durante gli
interrogatori gli americani erano presenti. Ero sempre bendato».

Il 16 maggio 2003

Tutta l’operazione – la cattura in Pakistan, il
trasferimento in Marocco, gli interrogatori a Temara – sono fatti, secondo
Kassim, con la consapevolezza e il consenso delle autorità italiane. «Esisteva
una collaborazione strutturale tra i servizi italiani e marocchini: quando ero
in quel centro, mi hanno fatto ascoltare una registrazione di una telefonata
che avevo fatto dal Pakistan a mio fratello a Bergamo. Solo i servizi italiani
potevano aver fornito loro quella registrazione».

Dopo questi mesi d’inferno, l’uomo viene rilasciato. Si
reca all’ambasciata di Rabat chiedendo un passaporto per tornare a casa. Gli
viene detto che ai non residenti in Marocco potevano solo dare un
lascia-passare per rientrare in Italia. Visto il modo «inusuale» con cui era
entrato nel regno cherifiano, chiede assistenza all’ambasciata per uscire dal
paese. Alla sede consolare non ascoltano le sue richieste e gli dicono di non
preoccuparsi.

Si reca quindi da solo alla frontiera terrestre di
Melilla. Qui i gendarmi marocchini gli chiedono come ha fatto a entrare in
Marocco, dal momento che il suo ingresso non risulta dai terminali. Lui
racconta la sua storia. I poliziotti si allarmano. Gli dicono di aspettare e lo
chiudono in una stanza. È il 16 maggio del 2003. Poche ore dopo a Casablanca,
un gruppo di attentatori suicidi si farà esplodere, provocando 42 morti. Il
regno piomba nel panico più totale. La reazione è violentissima: vengono
effettuate retate e arresti nei quartieri popolari di Casablanca. Migliaia di
islamisti sono fermati e rinchiusi in prigione. Ogni sospetto viene gettato in
carcere. In questo clima, Britel è arrestato di nuovo. Viene portato per la
seconda volta nel centro di Temara, dove trascorre quattro mesi. Poi è
trasferito in carcere a Salé. Il 3 ottobre del 2003, è sottoposto a un processo
farsa durato appena un giorno, al termine del quale viene condannato a quindici
anni (ridotti poi a nove in appello) per «associazione sovversiva e riunioni
non autorizzate». «Ma io non vivo in Marocco dal 1989. Dove mai avrei tenuto
queste riunioni non autorizzate?», chiede al telefono. Gli elementi di indagine
sembrano forniti dalle autorità italiane, che nel giugno 2001 avevano aperto
un’indagine su Kassim e la moglie, a causa di una «segnalazione» arrivata alla
Digos di Bergamo per presunte attività di fiancheggiamento a gruppi
terroristici. Un’indagine chiusa senza rinvio a giudizio nel settembre 2006,
perché non era emersa alcuna prova a suffragare l’accusa. Ma intanto, in base a
quelle stesse carte che hanno spinto il giudice italiano ad archiviare il caso,
Kassim è stato condannato in Marocco a nove anni.

In tutta questa storia, le autorità italiane mantengono un
silenzio imbarazzante. Non una protesta ufficiale con i pakistani e gli
americani per il sequestro di un cittadino italiano in Pakistan e il suo
trasferimento illegale in Marocco. Non una pressione su Rabat per avere
chiarimenti sulle carte processuali e sulle prove che hanno condotto alla
condanna di Britel. Nessuna richiesta ufficiale di liberazione, come invece
hanno fatto i francesi e i britannici in casi analoghi sia in Marocco che nel
centro di detenzione Usa di Guantanamo.

La domanda di grazia

I servizi consolari ripetono che «l’unica strada è una
domanda di grazia». Ma Kassim è scettico. «La grazia si dà a chi ha commesso un
reato e lo ha ammesso. Io sono innocente. E poi conosco il Marocco: so che se
il ministero degli esteri italiano facesse le debite pressioni, mi
libererebbero».

Ma queste pressioni non pare siano state fatte, almeno per
il momento. Intanto il re Mohammed VI, dopo aver ammesso nel 2005 in un’intervista a El
Pais, che «il suo paese aveva commesso abusi dopo il 16 maggio 2003», ha
bloccato ogni provvedimento di grazia nei confronti di islamisti dal marzo
2007, quando nuovi attentati hanno scosso il reame.

Così, schiacciato tra l’incudine della guerra al
terrorismo globale e il martello della paranoia anti-islamista marocchina del
post-2003, Britel rimane chiuso in cella, in attesa di una soluzione che non
arriva, nel disinteresse più totale delle autorità del paese di cui è almeno
formalmente cittadino.

Dal Pakistan a
Casablanca. Un calvario lungo
cinque anni

L’arresto
Kassim Britel viene fermato in Pakistan il 10 marzo 2002.
Qui viene interrogato dai servizi pakistani e da uomini dell’intelligence
statunitense. La famiglia ignora dove si trovi.

Il viaggio bendato
Il 25 maggio 2002, è caricato su un aereo e trasferito in
Marocco. Qui viene portato nel centro di detenzione di Temara, dove è
sottoposto a nuovi, durissimi interrogatori. La famiglia continua a non avere
notizie.

la liberazione
L’11 febbraio 2003, Kassim viene rilasciato. Dopo qualche
tempo passato in famiglia, chiede assistenza all’ambasciata italiana per
lasciare il Marocco. Non ottenendo altro che un lascia-passare, va al confine
di Melilla.

Il nuovo arresto
Arrivato alla frontiera il 16 maggio 2003, giorno degli
attentati di Casablanca, è arrestato e incarcerato di nuovo a Temara. Dopo
quattro mesi è trasferito nel carcere di Salé.

La sentenza
Il 3 ottobre 2003 è condannato a 15 anni di carcere,
ridotti poi a nove in appello.

La protesta in
carcere

Il 16 novembre 2007, Kassim ha cominciato uno sciopero
della fame. Le sue condizioni peggiorano di giorno in giorno

Internet per Kassim
Interrogazioni
parlamentari, rapporti e notizie sul sito web dedicato al caso

Visto il silenzio dei mezzi di informazione mainstream su
Britel (nella foto piccola), sua moglie ha creato un sito web in cui sono
raccolte tutte le informazioni e le novità sul caso (www.giustiziaperkassim.net).
Nel sito, si pùo trovare una ricca documentazione, dai rapporti su Britel della
Commissione del Parlamento Europeo che indaga sui voli illegali della Cia, alle
informazioni sulle interrogazioni parlamentari presentate dai deputato Ezio
Locatelli e dai senatori Giovanni Russo Spena, Milziade Caprili e Francesco
Martone (Prc).

«Se fate pressioni,
Britel sarà liberato»
Parla Claudio Fava,
già relatore della Commissione del Parlamento Ue sui voli Cia

di Alberto D’Argenzio

Bruxelles. Senza pressioni diplomatiche da parte dell’Italia, Kassim
Britel non sarà mai liberato. Un concetto semplice che Claudio Fava,
eurodeputato della sinistra arcobaleno, ripete a più riprese nei minuti
dell’intervista. Per un anno e mezzo Fava ha diretto i lavori della Commissione
del Parlamento europeo sulle attività della Cia in Europa. In questo periodo ha
ascoltato per tre volte l’avvocato di Kassim, ha parlato con la moglie. La Commissione ha
ricostruito la sua vicenda, Fava ne ha parlato anche con il governo italiano.
Massimo D’Alema e la
Farnesina tacciono.

Esiste una via
d’uscita per Kassim?

L’unico modo per restituirlo alla libertà è una forte
pressione diplomatica e politica da parte del governo italiano. Lo abbiamo
detto alla Camera ed abbiamo anche inviato un’apposita chiara richiesta al
ministro D’Alema. Siamo di fronte ad una extraordinary rendition, di fronte ad
un processo senza garanzie, ad una farsa, celebrata in fretta e al di fuori di
qualsiasi tutela, d fronte ad un vero e proprio caso di accanimento
processuale. Il Marocco ne ha fatta una questione di principio, vuole salvare
la faccia dopo aver condannato una persona senza prove e senza garanzie. Non lo
rimetterà in libertà se non grazie a delle forti pressioni diplomatiche.

E cosa ha fatto la
diplomazia italiana?

Non ho notizie di atti concludenti da parte della
Farnesina. Mi auguro che siano stati fatti dei passi, almeno dei contatti, ma
credo che questa domanda vada fatta a D’Alema. Quella delle pressioni è l’unica
soluzione possibile anche perché il Marocco dà per conclusa la via giudiziaria.
Per loro Kassim è colpevole. Ma pur essendo nato in Marocco Kassim è cittadino
italiano e come tale va protetto.

Non è che la Farnesina fa il
ragionamento inverso, che non si muova proprio perché è nato in Marocco?

Non vorrei pensare che Britel sia un cittadino italiano di
rango inferiore solo per aver preso la cittadinanza grazie ad un matrimonio.

Tutto lo lascia
pensare visto l’atteggiamento dell’ambasciata di fronte alle sue richieste di
aiuto…

Conosciamo alcuni dettagli della sua vicenda che denotano
una certa sciatteria da parte del personale diplomatico italiano, un’attenzione
quanto meno distratta alle sue preoccupazioni, alle sue richieste di aiuto. E
non è l’unico europeo dimenticato. Nei lavori della Commissione temporanea ci
siamo imbattuti in numerosi casi di cittadini europei che avevano una macchia
fondamentale: non essere nati sul suolo della Ue. Formalmente si trattava di
italiani, tedeschi, britannici, ma erano nati in Egitto, Marocco, Siria e ciò
ha portato ad atteggiamenti sbadati, distratti. Come il caso del tedesco
Kurnaz, incontrato a Guantanamo da funzionari dell’intelligence del suo paese,
non per essere liberato, ma per essere interrogarlo. Grazie a questa visita si
è fatto 4 anni e mezzo in più a Guantanamo. Ho la sensazione che ciò non
sarebbe accaduto se Kurnaz fosse nato a Monaco e lo stesso se Kassim Britel
fosse nato a Milano.

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