Fortress Europe – Pubblicato il rapporto di novembre

Fortress Europe è una rassegna stampa che dal 1988 ad oggi
fa memoria delle vittime della frontiera: 11.40
0 morti di cui 4.068 dispersi. Sono
soprattutto naufragi, ma anche incidenti stradali di tir carichi di uomini
nascosti insieme alle merci. È il caldo nel Sahara o le nevi dei valichi montuosi,
sono le mine dei campi di Evros, in Grecia, sono gli spari della polizia
marocchina, dell’esercito turco o le torture delle carceri in Libia e Algeria.
Per chi viaggia da sud, in un modo o nell´altro, di frontiera non è difficile
morire…

tratto da Fortress
Europe
del 12 dicembre 2007

barca di migrantiNovembre nero alle frontiere. 127 morti in un mese, quasi
tutti sulle rotte per le Canarie, dove hanno perso la vita 119 migranti: 61 in un naufragio in
Mauritania, 36 in
Marocco e 20 in
Gambia. Due corpi recuperati sulle coste algerine, mentre a Siracusa sono stati
rinvenuti i resti di altre quattro vittime del naufragio di Vendicari. In
Grecia e a Cipro ad uccidere è la polizia che spara sui migranti. Intanto alla
conferenza euro-africana di Lisbona passa il modello spagnolo: pattugliamenti
congiunti, esternalizzazione dei campi di detenzione e rimpatri. E l’Italia,
che ha reinsediato per la prima volta 40 rifugiate eritree, vola in Libia in
cerca di un accordo in vista della prossima stagione degli sbarchi. E
dall’inizio dell’anno l’immigrazione verso l’Europa ha già fatto almeno 1.470
vittime.

 

Barça ou Barçakh. Barcellona o l’inferno. Lo ripetono da anni, in wolof, i
giovani di Saint Louis e Dakar, pronti a partire, costi quel che costi, per
raggiungere il centro del mondo: l’Europa. La storia è nota. Nel 2006 il boom
degli arrivi alle Canarie, a un anno di distanza dalle deportazioni di massa
dal Marocco e dalla dura repressione di Ceuta e Melilla, le enclave spagnole
dall’altro lato di Gibilterra, finita con 17 morti ammazzati e un migliaio di
deportati. Nel 2006 arrivarono a Las Palmas più di 31.000 migranti, contro i
4.751 del 2005. Zapatero firmò un accordo di riammissione con il Senegal e
l’Unione europea lanciò la prima missione di pattugliamento anti immigrazione
dell’agenzia Frontex (denominata Hera) nelle acque mauritane e senegalesi, con
l’obiettivo di respingere in mare i migranti. Intanto i lavori del campo di
detenzione “Ecole VI” a Nouadhibou (Mauritania) venivano ultimati e la
struttura affidata alla Croce rossa spagnola. A settembre 2006 iniziarono i
rimpatri dei migranti sbarcati alle Canarie, prima verso Senegal, poi verso gli
altri Paesi firmatari di accordi bilaterali di riammissione con Madrid.

Nel corso del 2007 oltre 1.500 migranti sono stati fermati
in mare dalle navi di Frontex, mentre i senegalesi rimpatriati dal 2006 sono
oltre 18.000. Oggi il numero degli arrivi alle Canarie è crollato: meno 75% nei
primi nove mesi dell’anno. Ma da Dakar si continua a partire. Ma soprattutto si
continua a morire. Sì perchè le rotte si sono fatte via via sempre più lunghe e
pericolose, e per evitare i pattugliamenti di Frontex ormai si naviga fino a 300 miglia al largo
dalle coste africane restando in mare dieci dodici giorni con grandissimi
rischi. Lo testimonia lo stato di salute dei migranti che arrivano a Las
Palmas, sempre più spesso in gravi condizioni di disidratazione e ipotermia
proprio per la durata dei viaggi. Sempre più spesso con morti di stenti a bordo
delle piroghe. Lo scorso sei novembre, una delle piroghe venne stata soccorsa a
La Güera, al
confine tra Mauritania e Sahara occidentale. Vagava alla deriva da tre
settimane, dopo un guasto al motore. A bordo c’erano 101 passeggeri. Gli altri
56 che erano partiti con loro da Ziguinchor, in Senegal, venti giorni prima, li
avevano gettati in mare dopo che erano morti di stenti. Nel 2006 le vittime al
largo delle Canarie erano state, secondo i dati di Fortress Europe, almeno
1.035. Un anno dopo, con gli sbarchi diminuiti del 75%, i morti sono già 657
nei primi undici mesi dell’anno. Dei quali 200 a ottobre e 119 a novembre. Un dato che
rischia di essere di gran lunga inferiore alla realtà, di fronte
all’eventualità di tanti, troppi naufragi fantasma, come quello consumatosi a
ottobre nell’Atlantico, la cui unica eco è stata il funerale collettivo
celebrato a Kolda, in Senegal, dalle famiglie degli oltre 150 dispersi in mare.
Barça ou Barçakh. Qualcosa non va. Una intera generazione è tagliata fuori
dalla possibilità di raggiungere l’Europa, in un Paese, il Senegal, che non
riesce ad offrire un futuro ai propri giovani. La sola cosa che il presidente
Wade ha saputo fare, è stato firmare gli accordi di riammissione con la Spagna nel 2006 in cambio di maggiori
quote di ingresso. Accordi che presto saranno estesi anche al rimpatrio dei
minori non accompagnati, visto che solo a novembre, 616 dei migranti arrivati
alle Canarie non avevano ancora compiuto i 18 anni di età. Certo la Spagna di Zapatero ha anche
quadruplicato gli aiuti allo sviluppo, passati dai 150 milioni di euro nel 2003
ai 700 milioni nel 2006, ed ha aperto sei nuove ambasciate in Sudan, Capo
Verde, Mali, Nigeria, Guinea Conakry e Guinea Bissau. E di questo gliene va
fatto merito. Tuttavia senza un’apertura di canali legali di mobilità e senza
un massiccio e coerente investimento nelle economie africane, questo modello
sia destinato a fallire. Quanti altri morti dovremo ancora aspettare prima di
capirlo?

Il summit di Lisbona. “Cooperazione su rimpatri e
riammissioni dei migranti”. Unione Europea e Unione Africana non si sono
sbilanciate al meeting euro-africano di Lisbona dell’8 e 9 dicembre 2007.
Eppure incrociando le asettiche righe della dichiarazione finale del summit con
la cronaca degli ultimi anni, il testo diventa più chiaro: pattugliamenti
congiunti nelle acque territoriali africane, costruzione di campi di
detenzione, finanziamento delle operazioni di rimpatrio e perché no,
esternalizzazione delle richieste d’asilo. In cambio l’Ue, fedele alla linea di
Zapatero, ha proposto più posti di lavoro per l’immigrazione regolare africana,
investimenti nei paesi di origine, nelle infrastrutture e nella formazione.
Sulla carta il summit ha rilanciato l’impegno per la pace e la sicurezza, per i
diritti umani e il buon governo, per l’energia e l’ambiente, promettendo di
destinare lo 0,56% del Pil all’aiuto allo sviluppo, entro il 2010, quando si
terrà il prossimo vertice euro-africano, molto probabilmente nella Libia di
Qaddafi. Ottime premesse che solo il futuro saprà giudicare. Intanto Qaddafi ha
ribadito a Lisbona la sua posizione: risarcimenti coloniali, almeno un miliardo
di euro, come merce di scambio per bloccare i flussi migratori verso la Sicilia.

Blitz italiano in
Libia
. Intanto
Marcella Lucidi, sottosegretario del ministero dell’Interno con delega
all’immigrazione, è volata a Tripoli. Il 19 novembre 2007, una settimana dopo
il ministro degli esteri Massimo D’Alema, ha incontrato, assieme
all’ambasciatore italiano Francesco Trupiano, le più alte cariche libiche per
definire le strategie di contrasto all’immigrazione nei prossimi mesi. Omran
Hmeid (segretario della pubblica sicurezza), Abdelati Labidi (segretario delle
relazioni con l’Europa), Ali Salah Al-Richi (segretario dell’immigrazione).
L’Italia sta ancora dotando la
Libia di mezzi di pattugliamento. Le denunce sui crimini e
abusi commessi contro migranti e rifugiati dalle autorità libiche continuano a
rimanere inascoltate dal governo italiano, mentre le interrogazioni
parlamentari in merito, ancora attendono una risposta. Non c’è da stupirsi. La Libia costituisce un partner
privilegiato dell’Italia, specie dal punto di vista energetico. Il 16 ottobre
2007, Eni ha siglato un accordo con la compagnia di stato libica National Oil
Company (Noc) prevedendo 28 miliardi di dollari di investimenti oltremare in
dieci anni, con un’estensione della durata dei diritti di estrazione di gas e
petrolio fino al 2047. Un accordo importante, che non vale la pena rovinare denunciando
le deportazioni collettive dei rifugiati arrestati a Tripoli, le espulsioni nel
deserto e le condizioni degradanti in cui sono detenuti arbitrariamente in
Libia, per mesi o per anni, 60.000 tra uomini e donne ogni anno. Lo dicono
tutti: Amnesty International, Human Rights Watch, Fortress Europe, e adesso
anche un rapporto dell’Afvic che ha raccolto le testimonianze degli harragas
marocchini rimpatriati da Tripoli. Ma l’Unione Europea continua a chiudere gli
occhi.

Buone nuove. Un merito va però riconosciuto al
governo italiano. Sono 34 donne, 5 uomini e una bambina neonata, atterrati il 7
novembre a Fiumicino e accolti a Cantalice, in provincia Rieti. Facevano parte
degli oltre 600 rifugiati eritrei detenuti da un anno e mezzo a Misratah, in
Libia. L’Acnur ha svolto un ruolo fondamentale per il reinsediamento dei 40. A maggio 2007 aveva
visitato il centro e censito 443 prigionieri eritrei. Il 29 luglio una seconda
visita e finalmente, a fine agosto, le interviste di una sessantina di donne
con bambini, ritenuti i casi più vulnerabili. Di queste, 49 sono state
riconosciute rifugiate politiche e da allora è iniziata una corsa contro il
tempo per organizzare il loro trasferimento in Europa, dato che in Libia
rischiavano il rimpatrio in Eritrea, un paese in guerra dove i disertori
dell’esercito, come nel caso di questi rifugiati, sono arrestati e talvolta
fucilati, come successo nel 2005
a 161 persone, secondo un rapporto di Amnesty
International. Un merito che però scompare presto di fronte al destino di decine
di migliaia di migranti arrestati e deportati dalla Libia ogni anno, grazie
alla cooperazione dell’Unione europea e dell’Italia. E intanto a Misratah sono
stati trasferiti altri 40 eritrei detenuti da alcuni mesi a Zawiyah. Tutti
continuano a rischiare l’espulsione.

In breve. Segnaliamo diversi articoli
pubblicati sul sito nel mese di novembre. Il primo sul recente rapporto
pubblicato da Medecins du Monde su Malta, che definisce “spaventose” le
condizioni di detenzione dei migranti, che una volta sbarcati sono trattenuti
fino a 18 mesi, in condizioni che “si ripercuotono sulla salute fisica,
psicologica e psichiatrica, con frequenti problemi di salute mentale”. Non va
meglio nei nostri centri di permanenza temporanea. Roman Herzog, un
documentarista radiofonico tedesco, ha visitato a metà novembre il centro di
prima accoglienza di Cassibile, a Siracusa, in Sicilia. E noi abbiamo
pubblicato il suo reportage. Si può consultare nella sezione “Primo piano”,
insieme agli articoli sulle stragi dell’esodo somalo verso le coste yemenite,
in fuga dalla guerra civile, già 921 morti nel 2007 e all’approfondimento sui
respingimenti dei profughi afgani e irakeni dai porti italiani dell’Adriatico,
mai cessati nonostante le proteste ufficiali del Cir, che gestisce degli
sportelli di servizio legale nelle frontiere portuali italiane. Il 20 novembre
da Bari sono stati espulsi collettivamente 55 irakeni. Riammessi in Grecia
negli stessi giorni in cui le autorità greche, arrestavano 50 irakeni ad
Alexandroupolis, vicino alla frontiera turca, dichiarando che sarebbero stati
riammessi nella Turchia che si appresta a invadere militarmente il Kurdistan
iracheno. Infine segnaliamo la nostra nuova sezione video e audio. Se avete
materiale interessante speditecelo.

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