Per la prima volta nella storia, tra breve la maggioranza
della popolazione mondiale vivrà nelle città. Ma grandi porzioni di questa
popolazione urbana vivono in condizioni di assoluta povertà. Mike Davis, scrittore e attivista
sociale, descrive questa tendenza nel suo libro Planet of Slums. Ha parlato con Lee Sustar delle conseguenze economiche, sociali, politiche ed
ambientali della marea crescente della povertà urbana.
Fonte: Znet.it – articolo pubblicato il 9 maggio 2006
(Il pianeta degli slum è edito in Italia dalla Feltrinelli)
La questione della
crescita delle megaslum è stato escluso dal panorama del dibattito politico
corrente. Perché?
Devo confessare di essere stato sorpreso dal pressoché
totale silenzio da cui è stata salutata la pubblicazione di uno studio
fondamentale delle Nazioni Unite, La sfida delle slum, tre anni fa. Oltre ad un
panorama della povertà urbana su scala globale, i ricercatori dell’Onu ci hanno
fornito un bilancio complessivo dei danni prodotti da trent’anni di aggiustamenti
strutturali, politica del debito e privatizzazioni.
Immagino che questo sia proprio il genere di notizie che i
tifosi della Banca mondiale e, più in generale, del "Washington
consensus" non vogliono sentire.
L’eccezione, ovviamente, è rappresentata dal Pentagono. Il
disinteresse degli esperti del National Security Council verso i ghetti urbani
contrasta con l’avido interesse mostrato dai più pragmatici strateghi militari
dell’Army War College e del Warfighting Laboratory dei Marines.
Gli strateghi militari sono ben coscienti del fatto che,
mentre le loro bombe intelligenti sono estremamente efficienti contro le città
gerarchiche quali Belgrado, con le loro infrastrutture centralizzate e i
distretti economici, le armi super-tecnologiche americane possono poco per il
controllo degli agglomerati di povertà sottosviluppati, come a Mogadiscio in
Somalia e Sadr City a Bagdad.
Le grandi baraccopoli in crescita caotica nei sobborghi
città del terzo mondo neutralizzano buona parte dell’arsenale barocco di
Washington.
L’analisi attenta di questo problema ha condotto gli
strateghi militari ad una visione geopolitica del mondo diversa da quella del
resto dell’amministrazione Bush. Invece che su una cospirazione terrorista
mondiale o su un asse del male, gli strateghi militari si focalizzano sulla
supremazia del territorio, le baraccopoli stesse.
Il nemico, che il Pentagono concepisce come un insieme
eclettico di potenziali oppositori, dalle gang di strada ai gruppi radicali
alle milizie etniche, è meno importante che il labirinto in cui si nasconde.
Nel tuo libro tracci
una distinzione tra l’urbanizzazione "d’attrazione" prodotta
dall’industrializzazione del XIX e XX sec., e quella "di espulsione"
portata dai programmi di aggiustamento strutturale nel terzo mondo odierno.
Nel XIX sec., ovviamente, la teoria sociale classica ha
messo l’accento sulle città industriali come Manchester, Berlino e Chicago per
individuarvi un modello del futuro. Invece, le città cinesi, prodotto della
maggiore rivoluzione urbano-industriale della storia, rientra ancora nello
schema immaginato da Marx e Weber.
Molte città del terzo mondo hanno più in comune con la Dublino vittoriana o con
Napoli, con le loro gigantesche concentrazioni di povertà e
deindustrializzazione. La crescita urbana si è sganciata
dall’industrializzazione, finanche dallo sviluppo economico per se.
I fattori di "espulsione" allontanano la
popolazione dalle campagne in maniera indipendente dai fattori di
"attrazione" quali l’offerta di lavoro nelle città assicurando la
continuità dell’esplosione della popolazione urbana. Al di fuori della Cina,
inoltre, le ex metropoli industriali del Sud, tra cui Mombai, Johannesburg, Sao
Paolo e Buenos Aires, hanno sofferto massicce deindustrializzazione nel corso
degli ultimi venti anni.
» per questo che la teoria della
"modernizzazione" è crollata.
Ciò ha conseguenze importanti sia per la teoria sia per
l’azione sociale rivoluzionaria. In nessuna parte del canone marxista, neppure
nelle pagine visionarie dei Grundisse, si può trovare anticipazione del
proletariato informale odierno: una classe sociale globale costituita da almeno
2 miliardi di abitanti delle città, sconnessi radicalmente e permanentemente
dall’economia formale mondiale.
Quali sono le
caratteristiche comuni a quanto sta accadendo in Cina e, all’altro estremo in
Africa, con l’urbanizzazione?
Prima di tutto, è importante sconfessare la credenza che
le città siano cresciute in maniera lineare o unidirezionale.
Le megabaraccopoli di oggi in molti casi sono il risultato
non della lenta e incrementale accumulazione di povertà, ma del "big
bang" prodotto dalle politiche del debito e degli aggiustamenti
strutturali della fine degli anni 70 e degli anni 80. Imponenti fenomeni di
esodo dalle campagne si sono trovati di fronte ad una riduzione degli
investimenti sociali nelle infrastrutture urbane e nei servizi pubblici.
I nuovi poveri urbani sono stati lasciati da soli ad
improvvisarsi un rifugio e delle strategie di sopravvivenza. La loro
ingegnosità è di fatto riuscita a spostare le montagne, ma solo per un periodo
di tempo limitato.
Oggi, in tutto il mondo, è del tutto chiaro che la famosa
frontiera tra la terra che può essere liberamente o quasi liberamente occupata
si è chiusa, e lo spazio dell’economia informale è tragicamente sovrappopolato,
con troppi poveri che competono in nicchie di sopravvivenza. Soprattutto in
Africa questo "miracolo" di urbanizzazione autosostenuta rassomiglia
oggi più alla lotta per la sopravvivenza in uno squallido campo di concentramento
che a qualunque visione romanticizzata di eroici occupanti e
micro-imprenditori.
La Cina, ovviamente, è una parziale
eccezione, giacché lo stato continua a costruire milioni di alloggi decenti.
Eppure l’offerta è in grande ritardo sulla domanda e la disuguaglianza è
cresciuta di più nelle aree urbane cinesi che in qualunque altro luogo
nell’ultimo decennio.
Le baraccopoli, per esempio, hanno fatto la loro
ricomparsa in grande stile. La popolazione tradizionale della città è stata
espulsa dai suoi vecchi quartieri, soprattutto a Pechino, per fare spazio a
megaprogetti con finanziamenti stranieri e ad alloggi di lusso. Nel frattempo,
i migranti rurali – una gigantesca classe perimetropolitana di almeno cento
milioni di persone – si ammassa in sobborghi squallidi alla periferia delle
città.
Sono, assieme alle povere famiglie contadine, le maggiori
vittime della trasformazione capitalistica della Cina.
Hai scritto a
proposito degli immensi costi ambientali di queste tendenze.
In astratto, le città sono la soluzione alla crisi
ambientale mondiale. Da Patrick Geddes a Jane Jacobs, i teorici urbanistici
hanno correttamente sottolineato che la città, e non l’idealizzata piccola
fattoria, è la nostra salvezza: il sistema potenzialmente più efficiente per
riciclare l’energia e la materia tra noi e Gaia.
Inoltre, solo la città – attraverso la creazione di una
ricchezza democratica di spazio pubblico e lussi in comune – può far quadrare
il cerchio della sostenibilità ambientale e un alto standard di vita globale.
Però l’urbanizzazione contemporanea, sia nei paesi ricchi
sia in quelli poveri, sta paradossalmente distruggendo le precondizioni stese
di ciò che è propriamente urbano.
Negli Usa, l’impronta ecologica sempre più grande dei
quartieri benestanti – quelli dedicati allo stile di vita a base di McMansion(1) e di
Hummer<(2)> – fa apparire le Levittowns(3)degli
anni 50 delle vere e proprie utopie verdi.
Nei paesi poveri, nel frattempo, la crescita
dell’urbanizzazione informale supera di gran lunga le possibilità dei consorzi
idrici e degli spazi aperti che costituiscono le città, infrastrutture
ambientali fondamentali. I bacini vengono prosciugati o compromessi, concimi e
sostanze tossiche contaminano ogni aspetto della vita quotidiana, e i poveri,
alla ricerca continua di un rifugio, scommettono con i disastri nel costruire
lungo versanti instabili o le rive in disfacimento di fiumi inquinati (in India
centinaia di migliaia di persone dormono a pochi metri dai binari delle
ferrovie).
La povertà amplifica continuamente i rischi urbani e, in
combinazione con i cambiamenti climatici, promette un mondo in cui il progresso
incrementale verso gli obiettivi dello sviluppo e della salute pubblica saranno
spazzati via dai costi sempre maggiori delle inondazioni, dei terremoti, delle
frane e delle epidemie.
In che modo le
baraccopoli dei paesi occidentali – compresi gli Usa – rientrano in questo quadro?
Il terzo mondo urbano è tra noi. Oltre alla fatiscenza
crescente dei quartieri centrali e delle vecchie periferie, negli Usa
sud-occidentali stanno spuntando come funghi insediamenti informali che sono
praticamente indistinguibili da quelli attorno ad una qualunque città
dell’America latina.
Ad un palmo dalle case da milioni di dollari di Palm
Springs, in California, per esempio, sul territorio della riserva indiana, si
trovano slum che ospitano migliaia di agricoltori locali. Le colonie povere di
Juarez si rispecchiano oggi nei loro doppioni al confine tra Texas ed il Rio
Bravo.
Anche l’Europa ha le sue slum da terzo mondo, soprattutto
nei dintorni di città come Lisbona e Napoli. Il peggior slum europeo è
probabilmente la "Cambogia", a Sofia in Bulgaria, dove 35 mila rom
vivono come i Dalit [gli intoccabili, ndt] in India.
Ma il quadro più scioccante è fornito dalla ex Unione
Sovietica, dove le baraccopoli hanno proliferato più velocemente dei milionari.
Dal 1989 molti dei servizi urbani indispensabili (come il
riscaldamento a livello cittadino), così come di quelli ricreativi e culturali
(tutti legati alle fabbriche) sono crollati, lasciando gli anziani a morire di
freddo in inverno.
A Mosca, inoltre, immense popolazioni di squatter
[occupatori abusivi di costruzioni in disuso, ndt], soprattutto immigrati privi
dei documenti o minoranze nazionali, occupano le fabbriche abbandonate e
costruzioni residenziali, ammazzandosi di lavoro nell’economia degli sweatshop
che è l’orgoglio del nuovo ordine. Gorky deve star rigirandosi nella tomba.
Alcuni considerano i
tuoi libri come la prova di una nuova classe – descritta da Michael Hardt e
Toni Negri come la moltitudine – che è superato, se non sussunto la classe
operaia.
Non sono affatto d’accordo.
Rivisitiamo per un attimo il Manifesto comunista. Marx ed
Engels sostenevano che il proletariato industriale fosse una classe
rivoluzionaria per due ragioni fondamentali. Primo perché aveva una natura
radicale – non aveva cioè interesse alcuno al mantenimento della proprietà
privata su larga scale. E secondo perché la sua collocazione nella produzione
industriale moderna le conferiva capacità straordinarie – che mai un gruppo
subalterno aveva posseduto in precedenza – per l’auto-organizzazione, in campo
scientifico e in campo culturale.
Anche il proletariato informale di oggi possiede questa
natura radicale, ma è stato espulso dalla produzione sociale (almeno, in senso
marxistico) e, in molti casi, dalla cultura tradizione e dalla solidarietà
delle città. Costretto nei sobborghi fatiscenti, tagliati dal lavoro formale ed
esiliati dal tradizionale spazio pubblico, questo proletariato va alla ricerca
della fonte dell’unità e del potere sociale.
Inoltre, ciò che si vede in tutto il mondo, oggi, è un
vasto processo di sperimentazione, in cui i giovani che vivono nelle slum – a
volte in alleanza con la classe lavoratrice tradizionale, ma spesso no –
cercano soluzioni radicali alla loro perifericità.
Dove esiste una qualche trasmissione o ereditarietà della
tradizione della classe lavoratrice – come, diciamo, a El Alto, la versione
slum di La Paz, a
maggioranza Quechua, dove gli ex minatori si mettono spesso alla testa delle
mobilitazioni – il risultato può essere la reinvenzione della sinistra.
La popolazione urbana cittadini sta scoprendo che gli dei
del caos stanno dalla loro parte: che possono bloccare, spegnere ed assediare
l’economia della città della classe media formale. La mobilitazione creativa e
il sabotaggio con tecniche di guerriglia delle varie reti di servizi e forniture
possono compensare la perdita di forza nel processo produttivo.
Ma troppo spesso l’economia informale va mano nella mano
della lotta darwiniana che conduce alla divisione dei poveri e al controllo
delle slum da parte dei boss e dagli suprematisti etnici.
Un esempio tragicamente famoso è Bombay. Un quarto di
secolo fa, quando l’industria tessile era ancora molto forte, Bombay era
celebrata per la sua forte sinistra e per i movimenti sindacali. Le differenze
di setta (hindù contro musulmani o maratha contro tamil) erano in gran parte
subordinate alla solidarietà sindacale.
Ma dopo la chiusura delle fabbriche, le slum sono state
colonizzate dalla politica di setta – in particolare dal fanatico Shiv Sena, il
partito maratha e hindù. Il risultato sono stati scontri, massacri e una
divisione all’apparenza insanabile.
Credo, perciò, che le forze centrifughe all’interno della
classe dei lavoratori informali sono nel complesso maggiori di quelle della
competizione sul mercato del lavoro all’interno della classe tradizionale dei
lavoratori industriali.
Ma l’intera storia del movimento dei lavoratori nel corso
degli ultimi due secoli non è stata altro che il superamento di divisioni
ipoteticamente insuperabili. Nel frattempo non serve a molto – come fanno Hardt
e Negri – giocare a fare i prestigiatori con i concetti metafisici.
Il metodo di Marx consisteva nel cominciare con lo studio
di un caso concreto prima di giungere ad un qualunque concetto generale, e
chiaramente, ciò che occorre oggi è lo studio di casi concreti di politica
urbana nella sua grande diversità – dai nuovi movimenti sociali rivoluzionari
di Caracas agli inferni della concorrenza settaria a Karachi o Bagdad.
Ma sarebbe errato intraprendere questa ricerca comparativa
senza riconoscere che molti conflitti apparentemente intrecciati e molte
identità sono probabilmente solo transitori.
La "guerra di civiltà", che i neoimperialisti
credono rappresenti la missione dell’uomo bianco oggigiorno, è ovviamente solo
una illusione autoconsolatoria. Il vero nocciolo della storia contemporanea
restano le contraddizioni strutturali di un capitalismo globale che non sa
creare lavoro, alloggi o il futuro per la popolazione urbana terrestre in
espansione.
(1)
McMansion è un’espressione del gergo architettonico che è entrata in uso negli
Usa negli anni 80. È un termine peggiorativo che descrive uno specifico stile
di costruzioni che, come il nome suggerisce, sono a metà strada tra una magione
e i McDonald ormai presenti ovunque. Da WikipediA. [NdT] (<<)
(2)
Nota marca di veicoli speciali, produttrice di uno dei SUV di maggior successo.
[NdT] (<<)
(3)
Levittown è una zona di Long Island, il quartiere più ricco di New York, che
prende il nome dal suo architetto, William Levitt, che la realizzò come una
comunità suburbana pianificata tra il 1947 ed il 1951, il primo quartiere
residenziale prodotto in serie che è diventato un archetipo per tutto il paese.
Da WikipediA.
[NdT] (<<)