Sognando Eto’o

Sognando Eto’o
La carriera di calciatore in
Africa? Un mestiere rischioso

scritto
per Peacereporter da Federico Frigerio

calcio africanoQuale giovane africano non sogna di poter raggiungere un
giorno la notorietà di Samuel Eto’o, fuoriclasse camerunense del Barcellona?
E
chi non sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio pur di poter guadagnare quello
che oggi intasca Didier Drogba, attaccante ivoriano del Chelsea finanziato dal
paperone Abramovich? Certo non tutti gli atleti africani sono così fortunati:
secondo uno studio dell’università svizzera di Neuchâtel, per un calciatore del
continente nero fare carriera si rivela un affare complicato. Analizzando il
periodo 2002-2006 e le carriere di 600 professionisti, Raffaele Poli,
specialista svizzero delle migrazioni nel mondo del calcio, ha rilevato come
solo il 13 percento di questi sia riuscito a migliorare le proprie condizioni
economiche, mentre ben un terzo ha letteralmente appeso le scarpe al chiodo,
ponendo fine alla propria carriera.

calcio africanoSaldi africani. La questione diventa ancor più
spinosa se si presta attenzione all’intero meccanismo che riguarda il
reclutamento di calciatori provenienti dall’Africa: uno dei punti di snodo
principali è il Belgio, nazione in cui i vincoli legali del mondo del calcio
sono molto sottili e dove quindi risulta più facile “importare” giovani
promesse. Gli agenti trovano in Africa un mercato pieno di manodopera: la
garanzia di provini in prestigiosi club europei attira atleti (e le loro
disperate famiglie) come mosche. Il calcio diventa spesso lo specchietto per le
allodole per organizzare vere e proprie tratte: gli aspiranti calciatori
possono essere trasferiti clandestinamente in altre nazioni, costretti a
lavorare sotto la stretta vigilanza di sistemi mafiosi. Il desolante
immobilismo di molti stati africani non può che favorire tali meccanismi di
reclutamento: le famiglie dei giovani considerano la possibilità di un provino
in un club europeo come una benedizione, incoraggiano i loro figli e sono
disposti a indebitarsi, confidando di poter restituire il tutto una volta che
il loro figlio guadagnerà quanto Eto’o. Un semplice visto da turisti è il
biglietto da visita con cui questi giovani africani si presentano in Europa.
Inizia la serie dei provini e il tempo per poter lasciare una traccia di sé
varia dai tre ai sei mesi. Chi fa buona impressione ottiene l’agognato
contratto, ma pratica diffusa è quella di far firmare ai giovani atleti due copie:
una perfettamente regolare, da consegnare alla federazione calcistica, l’altra,
scritta a mano, dove sono indicate le vere condizioni e il reale (e
naturalmente più basso) salario. L’Ajax, prestigioso club olandese, è stato
multato per 10 mila euro per aver pagato alcuni giocatori africani al di sotto
del minimo salariale. Nel caso contrario, una volta terminati i sei mesi molti
atleti sono abbandonati a loro stessi.

calcio africanoUno su mille. I giovani fenomeni africani sono
spesso accompagnati nelle ambasciate per far lievitare la loro età, aggirando
con piccole bustarelle i regolamenti. Louis Clément Ngwat-Mahop, attaccante che
la scorsa stagione militava nel Bayern Monaco, fermato per normali controlli, è
risultato in possesso di un passaporto appartenente ad una cittadina francese.
Raffaele Poli sintetizza così i passaggi intermedi che permettono agli agenti
di trarre profitti sempre più elevati: “Il calciatore africano è una materia
prima che deve essere esportata per poter essere rivenduta a un prezzo
maggiore. Per far lievitare il prezzo li si fa prima giocare in campionati di
serie minori (Romania, Albania), poi di secondo grado (Svizzera, Belgio, Paesi
Bassi) per rivenderli infine ai club professionisti”. Jean-Claude Mbvoumin, ex
giocatore della nazionale camerunense, ha fondato l’associazione Culture Foot
Solidarie per aiutare i giovani calciatori africani che sono stati vittime di
imbrogli o di soprusi. Secondo i dati raccolti dalla sua associazione si
tratterebbe del 95 per cento dei casi. Gli atleti “scaricati” non possono
nemmeno concepire l’idea di tornare nella propria nazione. Il meccanismo
psicologico dell’insuccesso spinge chi non ce l’ha fatta a isolarsi, a vivere
nell’anonimato: tornare a casa a mani vuote sarebbe, oltre che una vergogna
insopportabile, pericoloso per lo stesso atleta. Mbvoumin non vorrebbe più sentire
frasi di questo genere: “Se torno a casa i miei genitori mi uccideranno perché
non riporterò loro ricchezza e grandi macchine”.

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