“La
«crescita dell’occupazione» si rivela perciò un fondale di cartone, fatto di
molti «lavoretti» a termine, malpagati, a bassa contribuzione e probabilmente a
scarso contenuto tecnologico(…)
Un quadro quantitativo che conferma le analisi
che vedono crescere la quota di «lavoratori poveri», a bassa qualificazione
professionale (magari in netto contrasto con i titoli di studio posseduti). E
che addebita al sistema delle imprese – non certo alla «disponibilità a
lavorare» della popolazione – i fallimenti certificati, ad esempio, dal recente
sorpasso effettuato nei nostri confronti dalla Spagna riguardo al «Pil pro
capite»” [la vignetta è di Mauro Biani]
Cresce l’occupazione,
dice l’Istat. Ma cala quella «stabile», mentre esplodono i contratti atipici
nei servizi di ricezione e cura
di Francesco Piccioni – fonte: Il manifesto 21.12.07
Siamo un popolo di lavoratori obbligati a lavorare sempre
di più. A tutte le età e con qualsiasi formula contrattuale. E a dare il
contributo più rilevante sono i lavoratori migranti e i «precari» di ogni
genere e grado. A dispetto dei predicozzi iperliberisti di Giavazzi o Ichino. Lo dice l’Istat, nella sua trimestrale rilevazione delle
forze di lavoro. La quale registra un aumento considerevole del tasso di
attività nella fascia di età che va dai 15 ai 64 anni: ora al 59,1% contro il
58,4 di un anno fa. Impressiona la «tendenza alla permanenza al lavoro degli
occupati con alemno 50 anni di età»: 118mila persone in più, nonostante la
spada di Damocle dello «scalone», che avrebbe dovuto incentivare la fuga verso
la pensione. Per capire questo dato bisogna perà metterlo in relazione con il
livello infimo dei salari e quello ancora più preoccupante degli assegni
pensionistici. Non c’è dunque alcuna spinta spontanea «autorealizzativa» a
rimanere al lavoro, ma solo la costrizione imposta da retribuzioni ridicole,
che letteralmente non consentono di sopravvivere.
Il numero degli occupati totali è così salito a 23 milioni
e 417mila unità; 416mila in più rispetto all’anno scorso (+1,8%). La metà di
questi risulta essere di origine straniera (+201mila), con una consistente
maggioranza di uomini (113mila unità) e una importante «minoranza» femminile
(87mila). Naturalmente ha un’inflenza anche la cultura di provenienza, che a
volte sfavorisce il lavoro femminile. In generale, infatti, l’occupazione
femminile cresce più rapidamente di quella maschile. Ma anche qui giocano un
ruolo decisivo sia i salari più bassi che vengono offerti alle donne che i
settori di impiego.
La maggior parte dell’incremento occupazionale si è
infatti concentrato nel terziario (scende l’agricoltura e rimane
sostanzialmente stabile l’industria), soprattutto nel commercio, alberghi,
ristorazione, sanità e cura alla persona (tradizionalmente ad alta percentuale
di lavoro femminile).
Il dato strutturale più interessante è che l’aumento
dell’occupazione – anche nel terziario – è dovuto alla componente «lavoro
dipendente». Segno del tramonto delle formule «individualizzanti» (come le
false partite Iva) che sostanziavano l’ideologia del «piccolo è bello» (o del
«mettetevi in proprio»).
Clamorosi, nella loro nudità, i dati relativi alla formula
contrattuale offerta dalle imprese: rispetto al 2006, i lavoratori a tempo
indeterminato sono cresciuti appena dello 0,6%, mentre i part time hanno avuto
un balzo del 10,2. Disaggregando le rilevazioni, emerge che i dipendenti
rappresentano il 63,9% della forza lavoro totale, ma che quelli a «tempo pieno»
calano in un anno dal 56,4 al 55,6%, mentre i parti time salgono dal 7,7
all’8,3%. Peggio ancora per i «temporanei», che passano dal 9,8 al 10,1% del
totale, mentre calano – seppur di poco – gli «indipendenti». In ogni ambito
cresce la quota del part time, che sul totale dell’occupazione passa dal 12,7
di un anno fa al 13,8% attuale.
La «crescita dell’occupazione» si rivela perciò un fondale
di cartone, fatto di molti «lavoretti» a termine, malpagati, a bassa
contribuzione e probabilmente a scarso contenuto tecnologico (come peraltro
dimostra la bassa crescita del Pil in presenza di un così imponente aumento dei
lavoratori in «produzione»). Anche da questo punto di vista, ha un indubbio
peso il fatto che i settori più «aperti» a nuova occupazione siano risultati –
come già detto – « commercio, alberghi, ristorazione, sanità e cura alla
persona».
Un quadro quantitativo che conferma le analisi che vedono
crescere la quota di «lavoratori poveri», a bassa qualificazione professionale
(magari in netto contrasto con i titoli di studio posseduti). E che addebita al
sistema delle imprese – non certo alla «disponibilità a lavorare» della
popolazione – i fallimenti certificati, ad esempio, dal recente sorpasso
effettuato nei nostri confronti dalla Spagna riguardo al «Pil pro capite».